
La verità è che se l'omicidio della vigile di Bologna non fosse legato dal bondage, l'Italia se ne starebbe occupando in maniera completamente diversa. Invece la trama di questa storiaccia è l'appendice smilza e di risulta del best seller Cinquanta sfumature di grigio. L'originale vanta centoventicinque milioni di copie vendute, qui con le sfumature ci si ferma a quaranta, forse persino a trentanove. Ma senza il bene di rimanere in due in una camera da letto. Dove, si sa, a differenza di una piscina pubblica, non esistono regole.
Il processo per omicidio si è trasformato in un processo tra le lenzuola, perché il contratto siglato tra adulti consenzienti prima che la tragedia si consumasse, quindi i ruoli, la sottomissione, le legature, sono ovviamente diventate molto più che un movente (unica ragione per la quale sarebbe comprensibile occuparsene). Sono il fulcro, la morbosità, il giudizio morale. Sono l'unico interesse. Che, svelato così, in malo modo, toglie dignità alla vittima prima che a chiunque altro. Con la scusa di renderle giustizia, la si va a spiare nuda. A indagare nelle modalità del suo sesso, che è l'abito con cui chiunque esce da se stesso. Ci si accanisce protetti dall'alibi che quello rimasto, l'assassino, Giampiero Gualandi, è un ex capo dei vigili di Anzola, è sposato, ha sottoscritto un contratto di sottomissione sessuale con la vittima, Sofia Stefani, e ha sessantaquattro anni a fronte dei trentatré della vigile uccisa. Oltre al resto (il colpo letale partito dalla sua arma di ordinanza), pesano il suo status, la sua età e il suo aspetto al di sopra di ogni sospetto: perché se la gioventù bruciata è romantica, la mezza età bruciata per niente. È un assassino, quindi contro di lui vale tutto. Ma parlando di lui, si parla inevitabilmente di lei. E del contratto sottoscritto da due parti. Che a due si sarebbe dovuto circoscrivere, perché come ci si intromette lo si sporca. Mentre il sesso sporco, se resta tra chi lo ha scelto, può essere pulitissimo.
E invece ci si sente autorizzati a supporre che tutta quella storia fosse nata storta fin dall'inizio e quindi che ci sia il tacito permesso di ravanarci dentro: spalancare, illuminare, ingrandire, profanare. Togliendo a Sofia, che già ha perso la vita, anche il libero arbitrio e la facoltà di esercitarlo per i fatti suoi nella maniera che più le è stata consona. Perché siamo tutti migliori del nostro peggior peccato, ma solo finché il nostro peggior peccato attiene soltanto a noi. Talvolta persino noi siamo troppo per ciò che scopriamo di essere in grado di immaginare, che si scelga di renderlo reale o meno. Con quale diritto, grazie alla scusa di un processo, si entra nella camera da letto o in qualunque altra ambientazione avessero scelto Gualandi e Stefani per essere ciò che volevano come volevano? Dietro la vita «costumata» di ogni giorno, in ognuno di noi, c'è uno spirito senza educazione che fingiamo di non vedere, un'energia che ci anima la carne debellando a scadenza fissa ogni compostezza, anche nei più composti. È lo stesso che porta il romanzo di Erika Leonard ad avere centoventicinque milioni di lettori.
La stessa che porta tutta Italia a usare la fine di una vita per potersi gettare, a fauci spalancate, sui resti inermi dell'intimità del prossimo spiandolo dal buco della serratura. Scomodo, parziale spicchio che rende sempre tutto tanto più proibito quanto più ghiotto. Tutti troppo abili a svilire. Tanto la morte quanto la fantasia dei vivi.
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