Giudici che vanno, giudici che vengono, giudici che hanno altro da fare, giudici che spezzettano i processi. Per capire come sia possibile che a oltre dieci anni dai fatti si trascini ancora nelle aule del tribunale milanese il processo cui ieri il Cavaliere - indignato per la richiesta di visita psichiatrica - decide di non partecipare più, bisogna ricostruire per bene il percorso seguito dai fascicoli di indagine sulle feste a casa di Silvio Berlusconi ad Arcore. Per approdare ad una dato curioso: se la giustizia è ancora lì a chiedersi cosa accadesse a Villa San Martino il sabato sera, e quanti centimetri di epidermide venissero effettivamente esposti nella saletta del «bunga bunga», la colpa non è tanto dei rinvii per motivi di salute chiesti dal principale imputato, né di altre forme di ostruzionismo, ma dalla lentezza quasi da moviola con cui la magistratura milanese ha proceduto sulla strada dell'accertamento della verità. Come se tirare in lungo i processi al leader di Forza Italia, alla fine, andasse bene anche e soprattutto ai giudici.
Se si guarda indietro, in tutta la fase iniziale del procedimento le richieste di rinvio delle udienze per il «legittimo impedimento» dell'ex premier si contano su poche dita, e sono quasi tutte legate a circostanze oggettive: la visita di controllo di un pacemaker in America, i postumi dell'operazione al cuore a Milano, il ricovero in ospedale. In tutte queste occasioni il tribunale non ha ritenuto necessario verificare con una visita fiscale lo stato dell'imputato. Lo ha fatto per la prima volta l'altro ieri, e Berlusconi era pronto a farsi visitare. Fin quando ha scoperto che avrebbe dovuto anche incontrare anche degli psichiatri, mandati a verificare non solo lo stress giudiziario da cui dice di essere afflitto ma il suo stato cognitivo. Un insulto. Ora il Cavaliere, con la sua lettera ai giudici, annuncia che fa un passo indietro: non chiederà più rinvii, il processo può andare avanti senza la sua presenza. Ma se si è arrivati a questo punto, a dieci anni dai fatti, è per le lentezze del sistema.
Ufficialmente, tutto comincia la bellezza di otto anni fa, il 23 maggio 2013, quando il giudice Giulia Turri condanna Berlusconi a sette anni di carcere: è la sentenza del filone principale del caso Ruby, quella che verrà spazzata via dalle assoluzioni con formula piena in appello e in Cassazione. Quel giorno il giudice trasmette alla Procura le testimonianze di trentadue testimoni: son tutti quelli (ragazze, giornalisti, musicisti, gente di passaggio) che hanno osato venire in aula a negare di avere assistito a niente di illecito né di troppo sconveniente durante le serate di Arcore. Se hanno negato, è la tesi della Procura, vuol dire che hanno mentito: per proteggere Berlusconi.
Servono sei mesi perché, a gennaio 2014, la Procura apra ufficialmente l'inchiesta: Berlusconi viene indagato per corruzione in atti giudiziari, con l'accusa di avere pagato i testimoni che lo hanno difeso; per costoro all'accusa di corruzione si aggiunge anche quella di falsa testimonianza. Potrebbe essere una indagine veloce: i pagamenti a buona parte dei testi sono avvenuti alla luce del sole, con bonifici, e sono ammessi dallo stesso Berlusconi. Il quale però spiega di avere solo voluto aiutare ragazze inguaiate dall'esposizione mediatica, o in altri casi - come il massaggiatore o il pianista - continuato a pagare gente che lavorava per lui da anni. A quel punto l'indagine non è complessa: bisogna solo capire se i testimoni hanno davvero mentito. E capire il senso di quei soldi.
Invece passa più di un anno senza che non accada praticamente niente. Ogni tanto sui giornali esce la notizia di un altro bonifico scoperto dai pm, e niente più; a marzo 2015 la Procura chiede la proroga delle indagini, a giugno chiede il rinvio a giudizio di Berlusconi, delle Olgettine e degli altri. E qui il fascicolo inizia a inabissarsi, nonostante il clamore mediatico. Bisogna aspettare il febbraio dell'anno dopo perché inizi l'udienza preliminare. E qui accade l'imponderabile perché il giudice spezzetta il processo in sette processi-fotocopia destinati a sette tribunali diversi. A Milano vengono rinviati a giudizio il Cavaliere e altri ventuno imputati: ma anche qui il processo si spezza in due, davanti a tribunali diversi. Intanto da Treviso e da Pescara un paio di tronconi viene rispedito a Milano dai giudici del posto, e i tempi si allungano ancora.
Quando poi a maggio 2018 i processi milanesi sembrano pronti per partire si scopre che non si possono unificare perché non sono ancora arrivate certe carte, e che comunque nessuno li può celebrare perché da una parte i giudici sono stati nel frattempo trasferiti e dall'altra c'è il giudice che aveva già condannato (sbagliando) il Cavaliere. A settembre sembra che si parta, ma a febbraio 2019 ci si ferma di nuovo perché anche i giudici di Torino hanno rispedito gli atti a Milano.E poi dicono che è colpa di Berlusconi.
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