Addio al Dc Forlani, tra i protagonisti della prima Repubblica

Insieme a Craxi ed Andreotti segnò un'intera stagione politica, quella del cosiddetto Caf

Addio al Dc Forlani, tra i protagonisti della prima Repubblica
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«C'è un'ambizione delle posizioni perdute che porta un partito verso pericoli estremi». Arnaldo Forlani descrisse con una citazione di Nietzsche la parabola discendente di quella Democrazia cristiana della quale era stato uno dei pilastri. Sul Giornale Gianfranco Piazzesi gli affibbiò un epiteto che lo avrebbe perseguitato per tutta la sua carriera, il «coniglio mannaro» traendolo dal Mulino del Po di Riccardo Bacchelli. Ieri l'Arnaldo da Pesaro se n'è andato a 97 anni, portando con sé i ricordi di quello che fu il partito che estrasse l'Italia dalle miserie del Dopoguerra per ripiombarla in quelle in cui ci dibattiamo ancora oggi.

Il grande pubblico lo ricorda per la parte finale della sua brillante carriera politica. Azionista paritetico del Caf, ossia l'asse Craxi-Andreotti-Forlani sul quale si ressero i governi dal 1989 fino a Tangentopoli. Forlani, alla guida della Dc, era tornato proprio nell'anno della caduta del Muro, a 20 anni dalla prima volta, più maturo, più determinato ma sempre mite (da cui l'appellativo letterario). Era un politico di razza, di quelli che crescevano in provincia e poi scalavano tutti i gradini del cursus honorum. Come il suo alter ego, Ciriaco De Mita da Nusco. Arnaldo era il «moderato», Ciriaco il «riformista», uno dei tanti sponsor di quell'eresia morotea del «rapporto innaturale» (soprattutto per Henry Kissinger) con il Pci al quale Forlani mise fine nel 1979. E con la stessa mitezza e la stessa determinazione Arnaldo aveva scritto il triste finale della stagione demitiana che ne aveva oscurato l'astro nel congresso del 1982 (quello delle «truppe mastellate», copyright di Gianpaolo Pansa).

L'Arnaldo aveva meditato la propria «vendetta» per sette lunghissimi anni assieme al Divo Giulio (e con la collaborazione di Bettino) e proprio in quel 1989 aveva prima sfilato la segreteria al «filosofo della Magna Grecia» (qui il copyright è dell'Avvocato Agnelli) e poi la poltrona di presidente del Consiglio. E pensare che proprio con Ciriaco nel 1969 strinse quel «patto di San Ginesio» in virtù del quale scalzò Flaminio Piccoli dalla guida della Balena bianca. Quello stesso Piccoli che nel 1980 riportò alla segreteria perché i tempi erano cambiati.

Detta così sembrerebbe la descrizione di un «professionista della politica», di quelli che Silvio Berlusconi guardava con sospetto. Eppure proprio il Cavaliere ebbe tra i suoi alleati uno dei discepoli dell'Arnaldo: Casini Pier Ferdinando da Bologna che da seguace di Bisaglia, alla scomparsa del «ras di Rovigo» nel 1984 si trasformò in forlaniano di ferro. E proprio Casini ci consegnò una delle frasi simbolo di Forlani: «Potrei parlare per ore senza dire nulla». Forse è anche per questo motivo che si ricordano i «preamboli», ossia gli incipit delle mozioni congressuali funzionali alla nascita di esecutivi nuovi sulla base di un accordo tra correnti suggellato dal congresso democristiano. Fu così nel 1970 e anche dieci anni dopo.

Ecco, Forlani (premier una volta ma spesso ministro) è stato l'interprete di un moderatismo la cui descrizione oggi sarebbe difficile se non con la formula «non troppo a sinistra e neanche troppo a destra».

Le ultime immagini da protagonista sono invece quelle della fallita elezione al Quirinale nel tragico maggio del 1992 e del serrato interrogatorio di Di Pietro al processo Cusani nel dicembre 1993. Fu messo alla gogna, ma non rinnegò nulla.

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