Ci sono stati anni in cui il telefono squillava annunciando un tornado. Il tornado si chiamava Gianni De Michelis e di professione aveva fatto per più di trent'anni il politico, pur essendo laureato in Chimica come la mamma (il papà ingegnere, il nonno pastore metodista). Fosse stato per lui non avrebbe mai smesso.
Non per dedizione al Paese, come avrebbe declamato un trombone qualsiasi, bensì per semplice, incontrollabile, smodata curiosità. Sete di vita rafforzata dall'implacabile intelligenza. Miscela che spesso gli faceva propendere per la via traversa, la diramazione, piuttosto che per la via maestra. Bettino Craxi, che lo sapeva, mai gli revocò fraterna benevolenza, considerandola «effetto collaterale» di quell'intelligenza che non mancava di stuzzicarlo (e divertirlo). «Tu, di politica - gli diceva - non capisci proprio un caz...». Lui, che di Craxi subiva l'indubbio fascino, lo vedeva come il raggio laser che, individuato un obbiettivo, lo coglie con precisione chirurgica. Così, sopportava. E si divertiva un mondo a scardinare le certezze craxiane, finché quello sbottava: «Sei un pasticcione!». E Gianni aumentava la dose di impegno, lavoro, spunti diversi e diramazioni geniali. «Che vuoi farci, sono un dispersivo...». Già, però una delle migliori dispersive menti che abbia avuto questo disgraziato Paese, capace di strappare le Partecipazioni statali all'interessato dominio democristiano per farne una delle basi dell'ondata socialista. E dunque, assieme a Claudio Martelli, l'anima di un socialismo che sprizzava vitalità da tutti i pori, così come accadeva nelle dissipate notti in discoteca che Gianni rivendicava con orgoglio. Se non era un leader di prima fila, era però il consulente d'eccellenza che qualunque vero capo avrebbe agognato. Simbolo dei ruggenti anni Ottanta, quelli del sorpasso economico all'Inghilterra. Bobo Craxi, che nel 2001 fondò con lui il Nuovo Psi lo piange con dolore, come «uomo di Stato e socialista coerente», nonostante avesse portato metà dei socialisti alla corte di Berlusconi. Ma tornado, e dunque incline al vorticoso girovagare, lo era stato fin dagli esordi. «A 11-12 anni simpatizzavo per la monarchia, l'anno successivo ero vicino al Msi... Da protestante non sarei mai potuto essere dc, né avevo propensioni comuniste. Nel '58 mi dichiaravo vicino ai Radicali di Pacciardi, finché una sera del luglio del '60, dopo il mio primo breve comizio universitario, tornando a casa mi dissi: non puoi restare cane sciolto. Ero dalle parti della sezione Psi di Campo San Barnaba, a Venezia, mi ci iscrissi». Fu l'inizio di una carriera che lo vide nel '64, quando uscirono dal partito i cosiddetti «carristi» della sinistra, prendere il sopravvento nella sezione con la sua idea «innovativa»: fondere i lombardiani, cui si sentiva vicino per temperamento e curiosità, con il saldo autonomismo nenniano. L'azzardo funzionò: tanto che fu replicato al Midas, in grande, da Craxi nel '76. Ma il vero esordio con le dinamiche politiche risaliva ai tempi dell'Ugi, l'Unione goliardica, che lo vide schierato in un congresso palermitano con Jannuzzi e Militello contro il già allora temutissimo Craxi. Doveva parlare il repubblicano Paolo Ungari e gli «anticraxiani» lo temevano perché buon oratore. Saputo che Ungari era in albergo a scrivere il discorso, decisero di inviargli una prostituta in camera per distrarlo. Raccontò Gianni che «dopo un'ora, visto che non uscivano, andammo a vedere e trovammo la prostituta nuda che batteva a macchina il discorso che Ungari, nudo anche lui, gli stava dettando».
La formazione politica avveniva sul campo, per salti e piroette di genio, altro che discoteche. Simbolo schietto di quella dissipazione che porterà alla dissoluzione dello stesso Psi, De Michelis sarà colui che con maggiore lungimiranza colse nel segno della politica estera italiana (fu l'apice della sua carriera sul finire degli 80): rispettato all'estero e duttile quanto bastava per non farsi spezzare da nessuno. Neppure da Tangentopoli che lo tormentò dal '92 in avanti: «Io sono quel tipo di politico dispersivo, dunque anche elastico: per questo Bettino si è fatto spezzare e io no». Eppure, come lo rimpiange Bobo, «ha tenuto in mano la bandiera nel momento in cui sembrava non ci fosse più niente da fare ed è stato coraggioso...
Mi riempie di tristezza il modo con cui ha finito la sua esistenza, era profondamente segnato dalle vicende degli anni 90 sul piano fisico». Evidentemente, era solo meno «giunco» di quello che lui stesso pensava. E in questo suo sobrio ritrarsi e nascondere le sue pene, sta la vera cifra dell'uomo generoso che amava la vita senza mai vergognarsene.
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