Il braccio di ferro sotto l'albero di Natale. È passato inosservato, nel clima di festa, ma in realtà è un segno che lo scontro fra politica e magistratura non accenna a finire e anzi sale d'intensità. Dunque, dopo le polemiche furibonde dei mesi scorsi in materia di protezione internazionale, il governo aveva deciso di aggirare l'opposizione strisciante dei magistrati delle sezioni specializzate dei tribunali spostando la competenza sui trattenimenti dei migranti presso le corti d'appello. Una mossa che sembrava lo scacco matto alle toghe. E a quei magistrati che nel giro di qualche settimana hanno mandato a picco le buone intenzioni del governo e svuotato i centri in Albania.
Sembrava fatta, ma l'esecutivo ha fato i conti senza valutare la possibile risposta dei giudici. E la replica, inattesa, è arrivata nei giorni frenetici della caccia all'ultimo regalo: il presidente della corte d'appello di Roma Giuseppe Meliadó ha arruolato sei giudici provenienti proprio dalla sezione immigrazione del tribunale.
Insomma, se il governo voleva disinnescare la grana, immaginando toni meno barricadieri e incendiari da parte dei giudici d'appello, ecco che ora si ritrova in questa nuova sede i vecchi magistrati di prima. Si tratta naturalmente, come anticipato da Repubblica, degli stessi giudici che avevano silurato le politiche della Meloni, azzerato i centri in Albania, tempestato di quesiti la Corte europea di Lussemburgo.
Negli ambienti del Palazzo di giustizia della capitale e nelle sedi istituzionali si prova a tenere un basso profilo: si tratterebbe di una scelta tecnica, per arginare la valanga dei procedimenti in arrivo. Nel dettaglio, la strada seguita è quella dell'applicazione e però la procedura è eccezionale. E si scomoda appunto in pochissimi casi. Qui, in modo sorprendente è stata tirata fuori dalla naftalina e utilizzata chirurgicamente per mandare ko le norme appena stabilite dall'esecutivo,
Insomma, può essere che sul piano teorico l'applicazione sia stata pensata con le migliori intenzioni, nei fatti è una sconfessione della legge voluta dal governo Meloni per mettere fuori gioco le sentenze creative della magistratura.
Nei fatti la linea del governo è sotto attacco da mesi. I giudici di Roma e di altre città italiane hanno criticato in modo tagliente le scelte dell'esecutivo, hanno interpellato la Corte europea di Lussemburgo, hanno costretto la Meloni a sospendere gli spostamenti in Albania.
Il governo ha reagito con la nuova legge, in vigore dall'11 gennaio, che sposta verso le corti d'appello la competenza sulla scivolosissima materia.
In contemporanea una sentenza della Cassazione, peraltro interpretata in modo opposto da maggioranza e opposizione, sembrava aver rilanciato l'azione del governo: la Suprema corte infatti ha stabilito che è il governo a dover stilare la lista dei paesi sicuri, elenco fatto a pezzi dai verdetti della magistratura in queste settimane.
I giudici possono capovolgere questa impostazione, ma si devono attenere al singolo caso, senza generalizzare. O almeno, questo è, a grandi linee, quel che emerge, fra polemiche e letture contrastanti del provvedimento. Ora la virata della corte d'appello rimette tutto in discussione, perché le pratiche controverse si spostano in corte d'appello ma qui ritrovano i vecchi giudici, freschi a loro volta di trasloco.
Al di là delle parole non ufficiali più o meno concilianti, lontane da certi proclami ascoltati negli anni passati, è evidente che lo scontro fra i due poteri prosegue. E si fa sempre più aspro, anche se la querelle dai modi felpati è sfuggita ai più nel periodo di Natale.
È facile prevedere che arriveranno ulteriori bocciature e questo mentre la
Meloni vuole ripartire con l'operazione Albania, un insuccesso, almeno finora, ma che piace ai partner europei e alla Commissione. Siamo al paradosso: Meloni è attaccata sul punto in patria, raccoglie applausi in Europa.
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