Ale, il Caronte dell'Appennino. "Così ho accompagnato le salme"

L'addetto ai servizi funebri di Ascoli ha trasportato decine di corpi: "Abituato alla morte, ma davanti ai bimbi ho pianto"

Ale, il Caronte dell'Appennino. "Così ho accompagnato le salme"

Erano cinquanta, ma non ha contato. Come se guidasse con la benda sugli occhi. Avanti e indietro, un numero di volte che non vuole ricordare. Come se li avesse caricati tutti sulle spalle, quei morti, senza guardarli, perché aveva una missione da compiere, portarli dall'altra parte della galleria della Fortezza. Alessandro ha 41 anni e da quando è nato ha a che fare con la morte. La morte è quotidianità, come è strana la vita di chi lavora nei servizi funebri. Una convivenza con la fine della vita che non sa mai svelarne il mistero. Nemmeno dopo quarant'anni. Capita che si arrivi in cima a una salita, sotto a una rocca che ancora fuma di polvere, che si vedano dei corpi stesi nei lenzuoli a terra, uno piccolissimo, accanto a montagne di detriti, e che si crolli come se fosse la prima volta. «Mi sono stupito anch'io, ma quando sono arrivato ad Arquata con il mio collega, dopo che ci hanno chiamato, siamo scoppiati a piangere». Un Caronte che piange, lì, in cima a una collina straziata. «È strano sì, ma è successo così. Era qualcosa che andava decisamente oltre quello che avevo fatto e visto da quando sono nato. Ci sono situazioni in cui non si è mai troppo pronti».

Alessandro viene da una famiglia di operatori di servizi funebri di Ascoli Piceno e fin da bambino vede in faccia la morte, perché se ne parla in casa e ha imparato a maneggiarla. Perché Alessandro ha la delega alla rimozione dei cadaveri. È sua la prima mano che solleva i corpi e li porta nell'ultimo viaggio. «Qualcosa di simile l'avevo vissuto all'Aquila, ma mi ero dovuto occupare solo delle bare». Un'enormità di feretri, il piazzale di una caserma ricoperto. Ma non era come portarli avanti e indietro. All'alba del 24 agosto Alessandro raccoglieva e portava, tornava indietro, raccoglieva. Lungo la Salaria come se fosse l'Acheronte e il carro lungo un fiume. Per prima una bambina.

Era Marisol di 18 mesi. «Avvolta in un lenzuolino, le avevano posato sopra già due fiori». Non si aspettava di vedere un lenzuolo così piccolo, un pugnetto di stoffa. Troppo anche «per chi non fa fatto altro nella vita che vedere morte». Il corpo di un bambino così, all'improvviso, quando non è ancora alba. «Ti segna e ti tocca». Chissà chi aveva trovato quei fiori nel cuore della notte. «Credo qualcuno di buon cuore che operava lì».

Un attimo. Poi, come su una corrente irreversibile, il trasportatore va, senza fermarsi. La Salaria, Trisungo, Acquasanta, la galleria della Fortezza, l'ospedale di Ascoli, svolta a destra verso la cappella dell'obitorio, o a sinistra, nella palestra, quando i corpi sono troppi. Trentatre chilometri. E a ritroso. Ascoli, Acquasanta, Trisungo. Solo ora Alessandro può parlarne. Davanti all'obitorio, lì dove arriva e parte sempre, con il sorriso gentile si sta occupando del trasporto di una persona che non è morta nel terremoto. Nessuno immagina da quali inferi arrivi.

«Mi ha provato sia dal punto di vista fisico che psicologico. Ogni volta che tornavamo indietro intorno a noi c'erano solo morte e disperazione». Lenzuolio sacchi. Alessandro li sollevava, li caricava sul suo carro e partiva. «Non guardavo se erano maschio o femmina, non sapevo le loro età, mi accorgevo quando erano piccoli». Nessuno si è accorto di lui, di Alessandro. È l'uomo che si muove nell'ombra. Ha un compito ingrato che lavora in quell'angolo di realtà dove non si addentra nessuno, in tutto quello che non è visibile.

«Non so quanto tempo è passato». Alba, mattina, pomeriggio, sera. È diventato buio nel frattempo. Lenzuoli e sacchi brillavano alla luce delle torce.

«Quante volte abbiamo fatto il viaggio, quanti corpi trasportavamo ogni volta. Abbiamo persino perso il conto.

So che fa impressione dirlo, ma lavoravo in modo automatico».

Un Caronte non può fermarsi a pensare quando raccoglie e mette in moto, come se si caricasse tutto sulle spalle. Lo può fare mentre guida, ma non quando la strada è sempre la stessa, troppe volte.

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