Amica infatuata, se ti sei illusa la colpa è solo tua

Che cosa dovrei dire di fronte a questo delirio? Io non sono mai stato innamorato di te e te l'ho lealmente detto fin dall'inizio senza mai barare. La risposta di Guzzanti alla lettera di Annamaria Bernardini de Pace

Amica infatuata, se ti sei illusa la colpa è solo tua

Marisa cara,

che cosa dovrei dire di fronte a questo delirio? Io non sono mai stato innamorato di te e te l'ho lealmente detto fin dall'inizio senza mai barare. Tu invece mi hai investito con una rete di vischiosità, luoghi comuni sul valore terapeutico e metafisico dell'amicizia ambigua; e poi con questa tua soffocante intrusione in ogni mio spiraglio emotivo, ogni fessura di fragilità in cui hai cercato di mettere radici e non schiodare mai più.

Mi hai messo in una condizione umanamente nota come trappola senza via d'uscita: quella di una non-coppia asimmetrica in cui uno dei due vuole possedere l'altro, mentre l'altro non ha alcuna intenzione di essere posseduto. E resiste come può.

Detto in soldoni: non si può giocare ai cari amici e fare sesso allo stesso tempo. È un gioco ambiguo al termine del quale uno dei due si fa molto male e anziché ammettere l'errore, se la prende con l'altro, come hai fatto tu con me. Il quadro che dipingi è melenso, fintamente tragico e un po' ridicolo: tu, l'eroina che accetta di annullarsi in un rapporto che non aveva alcuna probabilità di diventare quel che volevi; e io, descritto come il solito puttaniere, egoista e distratto, opportunista e cinico. La conosco benissimo questa solfa e non mi impressiona. È una solfa molto femminile e molto ricattatoria, anzi spregevole.

Guarda il sesso. Non c'è mai stato fra noi alcun contratto o patto, in materia, salvo la regola base che dovrebbe esistere sempre fra due che scopano: io ne do tanto a te, quanta tu ne dai a me. Punto e fine della storia. Invece, tu il sesso me lo hai sempre fatto pagare un tanto al chilo, al respiro, a goccia di sudore, a orgasmo anche simulato (ero io a simulare protetto dal preservativo) per non parlare dei preamboli che tu odiosamente chiamavi «coccole». Odio questa parola, coccole, che dovrebbe dare l'idea di distratte e affettuose carezze, mentre si tratta per lo più di prestazioni ad alto impegno aerobico anche nel mese torrido del solleone, quando il buon senso consiglierebbe l'onesta posizione del missionario ad addominali tirati e senza contatto ventrale, per non liquefarsi.

Naturalmente anch'io dal nostro rapporto, almeno all'inizio, ho tratto qualche vantaggio, chi lo nega. Io ti permettevo di sfiancarmi con quelle tue lunghe tirate inconcludenti in cui sostenevi che tu eri un angelo e io un mascalzone. Ma poi, almeno, si festeggiava: si mangiava bene e quando capitava e senza impegno si faceva l'amore in modo gradevole.

Però, già allora, all'inizio di questa stravagante «amicizia» c'erano cose che non riuscivo a mandare giù, ad esempio la tua fragilità sui congiuntivi. Per due volte mi hai detto «se io sarei andata». E poi volevi parlare a tutti i costi di politica e ripetevi tutti i mantra della stampa più conformista, sempre col ditino alzato per chiarire che tu sola avevi una chiara visione del bene e del male. Sei stata una pesantissima donna etica, orgogliosamente banale e un bel po' ignorante. Ecco perché ho cercato di farti ragionare, ti ho svelato due o tre cose che ignori della storia più recente e ho cercato di migliorarti. E l'ho fatto con affetto e un certo spirito di servizio. Adesso si scopre che ti sentivi demolita, annullata, scheletrita, distrutta.

Tu quando parli di amicizia, in realtà intendi vampirismo. Il sangue che preferivi era quello dei miei rari momenti di tristezza o di riflessione su antichi ricordi. Tu eri là in agguato a chiedere la tua oncia di carne come il mercante di Venezia o il mezzo litro di sangue come il conte Dracula. E così mi hai beccato in un momento di tristezza profonda mentre ricordavo le sofferenze di mio padre e allora ti sei gettata a capofitto nella pozzanghera delle mie (poche) lacrime. E quanto hai sguazzato, in quella pozzanghera. Com'eri felice di arpionarmi in nome dell'amicizia trionfante e impicciona. E adesso leggo che io anche in quell'occasione distruggevo la tua autostima. Ma autostima di che?

Mi rimproveri di essermi «messo a nudo» davanti a te. L'ho fatto poche volte, ma le ho pagate tutte care, perché ne hai approfittato per dichiararti «unica custode del mio io più profondo». Per te il mio «io» più profondo» era agli arresti e tu sola avevi la chiave della cella. Tu in realtà reciti: reciti quando parli, quando scrivi, quando scopi. Reciti in stile barocco, come quando dici che io ti avrei chiesto di «saziarmi di te». Non sei un hot dog, Marisa, e neanche una crema pasticcera. Sei piuttosto una narcisista che non conosce i confini fra il proprio sé e quello degli altri.

È per questo, mia cara amica finalmente perduta, che io non ho potuto sviluppare nei tuoi confronti nulla di più di quel poco che è venuto fuori. Cioè il progressivo desiderio di darmela a gambe. Un desiderio di autodifesa che andava di pari passo con il fallimento del nostro tenue rapporto erotico in cui comandavi tu: posizioni, ritmo, premesse e conseguenze. Quando dichiaravi che era ora di venire, si veniva e guai a chi restava indietro. Un incubo. Ma adesso mi dici che tu passavi le tue giornate «nell'attesa spasmodica di quel fremito irrinunciabile che c'è nell'unione carnale di due corpi». Dio santo Marisa! Unione carnale fra due corpi! Ma ti rendi conto? Io, per la verità, al fremito irrinunciabile preferivo la fuga. Al primo apparire del tuo languore, trovavo un pretesto e scappavo. Capisco che per te fosse frustrante, ma era per sopravvivenza. Tutta colpa tua. Io per te non esistevo come persona, ma come macchinario per portare in scena i tuoi odiosi buoni sentimenti, la tua sensibilità da cameriera ottocentesca. Un paio di volte, di fronte a frasi come «fremito irrinunciabile», lo ammetto, ti ho dato della stronza. Ne sono pentito e me ne scuso, ma l'ho fatto a fin di bene sperando di segnalarti il limite fra il decente e l'indecente: il fremito spasmodico Marisa, è indecente. Sa di ascelle mal lavate.

Quanto al «nocciolo del nucleo che sta nell'epicentro dell'essere umano» mi hai fatto veramente ridere. Io ti avrei mangiato il nocciolo del nucleo dell'epicentro, mia povera Marisa? E come? Dici tu: con i miei silenzi. Ma io tacevo man mano che la tua retorica del fremito carnale prendeva corpo come un alieno fra noi. Io stavo zitto per pudore e quando parlavo di «amicizia speciale e inspiegabile» intendevo proprio un'amicizia fuori norma e contraria alla logica, sia pure degli affetti.

In soldoni: non eri mia moglie, non eri la mia fidanzata, ma andavi in bestia quando a me piaceva una donna e mi sentivo libero di fare quel che mi pareva. In realtà eri gelosa ed è questo il vero nocciolo duro dell'epicentro. Il resto è chiacchiere e ipocrisie. Dopo una delle tue scenate (fredde, musi lunghi, sguardi torvi e un imbarazzante episodio di flatulenza da nervosismo) decisi che col sesso avevamo chiuso. Non ci fu più niente da fare.

A quel punto, finalmente l'hai capita. Hai capito che non c'era più trippa per gatti, che questa finzione ipocrita del supremo sentimento dell'amicizia era soltanto un travestimento per una relazione ipocrita in cui tu avevi finto di accontentarti, visto che io non ti amavo. Hai mascherato la tua frustrazione con l'amicizia e poi mi hai presentato il conto. E adesso che ti ho veramente e apertamente rifiutato, scopri con orgoglio di esserti liberata di me, il tuo tiranno, rintracciando il significato di parole banalissime come amore, amicizia, coppia. Che successo! Che libertà. Comunque, vedi, è un risultato. Minuscolo, un po' ridicolo, ma un risultato.

Dovresti essere soddisfatta, vista la modestia delle tue ambizioni. Vedi che l'amicizia, anche la più disastrosa può dare qualche piccolo frutto? E con questo augurio di speranza, ti saluto senza alcuna nostalgia, ma con un certo sollievo.

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