C'è un filo di rabbia che lega New York a Parigi: il caso di Adama Traoré, deceduto il 19 luglio 2016 nel giorno del 24esimo compleanno dopo un fermo di polizia nella banlieue. Le autorità hanno sempre escluso responsabilità. Martedì sera è arrivata la versione della sorella: asfissiato per «placcaggio ventrale» dal gendarme che lo immobilizzava. A dirlo, la controperizia della famiglia in un timing perfetto per innescare una miccia già imbevuta Oltralpe. Quella delle rivolte sociali.
Basta un pretesto per ripartire. L'ennesima autopsia, la terza, ha infatti scatenato una nuova protesta dei «neri di Francia». Chiedono giustizia al grido di «Traoré come Floyd»: slogan in inglese, rabbia connessa agli eventi sull'altra sponda dell'Atlantico e 20mila persone disperse a colpi di gas lacrimogeni martedì. Un milione di euro di danni e 18 arresti in una manifestazione davanti al tribunale parigino.
Dopo la pubblicazione del nuovo rapporto che coinvolge i gendarmi nella morte del ragazzo, la sorella soffia sul fuoco: «Non è più la battaglia della famiglia Traoré, ma di tutti voi». Detto, fatto. Ville Lumière illuminata dai fumogeni e dose rincarata sui media, ieri: «La morte di Floyd ricorda quella del mio fratellino», dice Assa in tv. Non chiede solo «giustizia» per il 24enne, accende gli animi (e la banlieue).
Sulla carta, i «neri di Francia» hanno risposto alla chiamata del comitato di supporto alla famiglia del 24enne. Un «omaggio al Floyd di Parigi» contro ogni violenza della polizia però trasformato in un campo di battaglia, facendo piombare Parigi in un'atmosfera simile a quella newyorkese. Arredo urbano distrutto, negozi alle fiamme. Scontri a Porte de Clichy.
È tornato l'incubo della banlieue? L'avvocato di due dei tre gendarmi che arrestarono Traoré, Rodolphe Bosselut, ha l'impressione «che ci sia uno sfruttamento delle notizie americane, stanno cercando di importarle in Francia, nulla a che fare con Traoré». La portavoce del governo chiede «pacificazione», rifiutando il parallelismo: prudenza, dice Sibeth Ndiaye, «situazione non comparabile né sul piano storico, né sociale». Inevitabile, però, riportare l'orologio al 2005, alla rivolta della banlieue che colpì duramente Parigi. «Smettete di chiamarli giovani - disse l'allora ministro dell'Interno Sarkozy in tv - sono feccia, canaglie, ribadisco e firmo».
Allora si infuriò il campione del mondo Lilian Thuram. Oggi c'è Kylian Mbappé in prima fila a stigmatizzare certe derive. «La violenza di Stato non è insita nel nostro Paese», insiste l'esecutivo. Ma tutto si svolge in un clima che vede da tempo le forze dell'ordine accusate di sproporzionato uso della forza: nel 2014, nel 2016 e contro i gilet gialli. A inizio anno Macron parlò di «migliorare la deontologia» dei gendarmi. Il precedente di Sarkozy che definì «feccia» i casseur, termine usato anche da Trump, è vivo. Pronto a infuocare le piazze e non più solo le periferie. Insiste la sorella di Traoré. «L'unico responsabile degli scontri è il prefetto Lallement». Che ribatte: «Polizia né violenta, né razzista».
In serata è dovuto intervenire in Parlamento il ministro dell'Interno Castaner: «Ogni responsabilità, comprese espressioni razziste, sarà oggetto d'indagine e punita». Memore, forse, dell'assoluzione del 2015 per gli agenti che scatenarono la rivolta di dieci anni prima.
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