Dopo giorni passati a sospettare dei governisti, Giuseppe Conte si trova a inseguire gli oltranzisti. Nella giornata dell'ennesimo penultimatum a Mario Draghi, l'impressione nella truppa pentastellata è che ormai l'unità del M5s sia non più di una chimera. Quella che emerge da queste giornate è la fotografia di un partito spaccato. Se martedì c'era una maggioranza schiacciante a favore degli oltranzisti, ieri si registrava una situazione più equilibrata per i governisti.
I ribellisti si fanno sentire in serata, durante un'assemblea congiunta dai toni tesi, come al solito. Come accadeva prima dell'addio dei dimaiani. Tutto cambia perché nulla cambi, nella Babele dei Cinque Stelle sempre litigiosi. La linea dura si nutre di parole d'ordine piene di rabbia. Contro il premier e contro il Pd. «Non possiamo farci umiliare tutti i giorni da Palazzo Chigi e dal Pd», è una delle voci che arrivano. Prima della girandola degli interventi, Conte fa una sorta di captatio benevolentiae rivolta ai più estremisti. Ripete le parole sul «disagio politico» già pronunciate a Chigi e attacca. «Questo governo deve cambiare marcia, noi non possiamo stare qui in un atteggiamento di condiscendenza che diventa corresponsabilità, non possiamo reggere il moccolo al grande centro e al centrodestra». E ancora: «Noi non abbiamo giurato fedeltà a Draghi, abbiamo giurato fedeltà al Paese, noi siamo qui per il bene dei cittadini, se non riusciamo a perseguire questi obiettivi viene meno la ragione della nostra permanenza al governo». Conte se la prende con Draghi per il suo silenzio sulla scissione di Di Maio: «Di fronte all'accusa gravissima che ci ha fatto il ministro degli Esteri, cioè di attentare alla sicurezza nazionale, ci meravigliamo che lo stesso presidente del Consiglio non abbia trovato occasione per intervenire con un richiamo». Conte risponde anche a Franceschini che aveva minacciato la tenuta dell'alleanza giallorossa: «In un'alleanza ci vuole reciproco rispetto, i diktat ci lasciano assolutamente indifferenti». E di nuovo contro Draghi: «Non accetteremo più testi che arrivano in Cdm e noi non sappiamo nulla».
Nel Consiglio Nazionale convocato alle nove di mattina però prevalgono le colombe e i falchi si adeguano. «Durante la riunione c'è stato chi ha espresso la volontà di uscire subito dal governo, ma io credo che non avrebbe avuto senso lasciare ora», racconta al Giornale uno dei partecipanti al Consiglio Nazionale. I vertici del M5s si riuniscono di nuovo in serata per fare il punto prima dell'assemblea. Nella riunione della mattinata, che decide per la permanenza al governo, va in scena lo scontro tra tre anime grilline. In prima linea per andare via dall'esecutivo ci sono sempre i vicepresidenti Riccardo Ricciardi e Paola Taverna, definiti «la falange armata» dai parlamentari. Tra i governisti ci sono sempre i due ministri Federico D'Incà e Fabiana Dadone. Gli altri due vice Michele Gubitosa e Mario Turco e il ministro Stefano Patuanelli seguono Conte.
Pressato dagli eletti oltranzisti, nel pomeriggio il leader prova a correggere il tiro, dopo aver detto all'uscita da Palazzo Chigi che il M5s resta dov'è. «Non abbiamo dato rassicurazioni, entro fine luglio vogliamo risposte», precisa Conte. L'avvocato si becca anche il rimprovero di Alessandro Di Battista. «E anche oggi il M5s esce dal governo domani», scrive sui social l'ex deputato. Poi si chiede «come sia stato possibile ridurre la più grande forza politica del Paese nella succursale della pavidità e dell'autolesionismo». Alla Camera i più tormentati iniziano a chiedersi se «la gente capirebbe una nostra uscita dall'Aula sul decreto Aiuti».
Intanto Beppe Grillo rilancia sul salario minimo, fissando a 9 euro lordi all'ora «la soglia di dignità». E su Conte pende sempre la spada di Damocle del verdetto del Tribunale di Napoli. Intorno al 20 luglio è atteso il responso che potrebbe ribaltare di nuovo il destino di Conte.
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