«Quello che è successo al Beccaria per me era inimmaginabile. Non so come sia stato possibile. Una cosa è certa: se si lascia una nave troppo a lungo senza comandante, quella nave va a sbattere».
Nuccia Miccichè era la direttrice del Beccaria, il carcere minorile di Milano. Il 22 ottobre 2015 la arrestarono per corruzione i pm di Caltanissetta, e la tennero agli arresti per sei mesi accusandola di avere favorito una cooperativa e una associazione culturale quando dirigeva il carcere nisseno. A nove anni di distanza, è stata assolta, «il fatto non sussiste». Per cinque anni, dopo la revoca degli arresti domiciliari, il ministero della Giustizia l'ha pagata per non fare niente, poi è andata in pensione. Dopo di lei, il Beccaria non ha più avuto un direttore. Quando nell'aprile scorso è esploso il caso dei pestaggi e delle torture all'interno del «Minorile», con l'arresto di tredici agenti di custodia, molti hanno indicato proprio nella mancanza di una guida stabile la spiegazione di quella sorta di impazzimento collettivo raccontato dalle carte dell'inchiesta.
Di quello che accadeva nel «suo» carcere la Miccichè ha letto le cronache dei giornali, con stupore e disagio crescente, dall'alto di una esperienza di decenni nei carceri minorili. Pensa che se lei fosse stata ancora al Beccaria, se non l'avessero portata via con accuse infondate quella mattina di ottobre, tutto questo non sarebbe accaduto? «Penso che un direttore presente in un carcere in pianta stabile, non un responsabile provvisorio che cambia a ogni piè sospinto, abbia mezzi infinitamente maggiori per segnare le linee di comportamento e monitorare sul loro rispetto. I problemi negli istituti minorili ci sono sempre stati, ma a stupirmi profondamente è che una situazione simile possa essersi creata al Beccaria che è sempre stato un punto di riferimento per gli altri carceri, anche perché essendo a Milano gode di contributi esterni che altrove si sognano. Lì si è sempre fatta rieducazione vera, del trattamento e non dell'intrattenimento».
Nuccia Miccichè parla con affetto, con orgoglio del carcere da cui venne strappata. Di quanto accaduto dopo, del suo arresto, dell'inverosimile durata del suo processo, racconta quasi con filosofia, con disincanto siciliano. La accusavano non di avere preso soldi ma di avere «asservita la funzione pubblica di rieducazione dei giovani ristretti negli istituti» a una «commistione di interessi imprenditoriali, economici e personali». La indicavano come capo di una associazione a delinquere. Non era vero niente, si scopre ora. «Diciamo che sono stata sfortunata. Il mio processo è iniziato e si è fermato una sfilza di volte, il giudice veniva trasferito e si ricominciava da capo, poi ripartiva e il giudice cambiava di nuovo. Quando sembrava la volta buona è arrivato il Covid e si è fermato tutto. Tre anni fa finalmente è arrivata la sentenza di primo grado, che mi assolveva da tutte le accuse tranne che da un capo d'accusa dove la corruzione era diventata istigazione non si capisce bene a cosa.
Adesso la sentenza d'appello cancella anche l'unico reato superstite e mi assolve con formula piena».Nove anni in attesa di giudizio sono tanti. «A me resta il rimpianto delle cose che avrei potuto fare, e che non ho fatto a causa di questa storia».
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