BerlinoLo Stato islamico è molto peggio di quanto l'Occidente creda. Parola di Jürgen Todenhöfer, il giornalista tedesco che, dopo ben sette mesi di negoziato, si è infilato nelle file dell'Isis rimanendo fianco a fianco per dieci giorni ai combattenti del califfo Abu Bakr al-Baghdadi a Mosul, nel nord dell'Iraq. Il coraggioso reporter 74enne del Tageszeitung , tabloid di Monaco di Baviera, ha compiuto la propria impresa accompagnato dal figlio Frederic, che si è occupato delle riprese.
L'esito del reportage è preoccupante. Todenhöfer racconta di essersi trovato davanti a un fenomeno incomprensibile: con «un entusiasmo mai visto in altre zone di guerra», centinaia di combattenti volontari, molti anche da Stati Uniti, Gran Bretagna, Svezia, Russia, Francia e Germania affluiscono ogni giorno per unirsi alle truppe dell'Isis. Un acronimo Stato Islamico dell'Iraq e della Grande Siria che tiene fede al suo nome, visto che gli uomini di al-Baghdadi controllano una regione «più grande della Gran Bretagna». Un territorio conquistato in pochi mesi: «Al-Qaeda in confronto è un nano». Quello che ha più ha colpito il giornalista è che il Califfato non è solo molto esteso, ma «funziona come gli altri Paesi totalitari della regione».
Ecco perché Todenhöfer, parlamentare del partito cristiano democratico (Cdu) dal 1972 al 1990, scrive che «l'Occidente sottovaluta in maniera drammatica l'entità del pericolo». A oggi solo gli Stati Uniti, con il supporto delle monarchie petrolifere del Golfo Persico, si sono presi la briga di reagire contro l'Isis: ma non è certo con dei raid aerei limitati, spiega il reporter, che sarà possibile sconfiggere al-Baghdadi. Al pari di altri leader nella regione che uniscono al potere militare quello politico e religioso, il Califfo vive fra severe misure di sicurezza. Tant'è che lo stesso Stato islamico ha fatto sapere via Internet di aver sventato un attentato di una cellula eversiva che puntava all'uccisione del capo jihadista iracheno, accusato di essere «blasfemo perché riscuote tasse da blasfemi»: i golpisti mancati sarebbero stati giustiziati.
Fredda finora è stata anche la risposta della Turchia, che pure condivide centinaia di chilometri di frontiera con Siria e Iraq, i due Paesi dove l'Isis è più forte. In molti hanno criticato l'inerzia del presidente turco Recep Tayyip Erdogan davanti al massacro di curdi che lo Stato islamico sta compiendo proprio alle porte della Turchia, ma per Erdogan la priorità è (ancora) un'altra: abbattere il presidente siriano Bashar Assad. Di conseguenza i peshmerga curdi di Kobane, sul confine siro-iracheno, si sono trovati a combattere da soli contro i miliziani del Califfo.
Peggiore della loro è la sorte degli yazidi: antica minoranza etnica e religiosa che pratica un monoteismo originale. L'ultimo rapporto di Amnesty International parla chiaro: gli uomini sono obbligati a convertirsi o vengono uccisi, mentre le donne sono rapite a centinaia e rese schiave sessuali dei terroristi del Califfo. Usate come trofei, in molte si tolgono la vita pur di uscire dall'inferno della schiavitù.
Todenhöfer, fra i pochi giornalisti tornati vivi dalla regione, ha spiegato che la guerra contro le minoranze non è un effetto dell'avanzata dell'Isis ma il suo principale obiettivo. È la «pulizia religiosa», combinata a una capillare propaganda a base di poster nelle aree conquistate per spiegare al buon musulmano come pregare, come vestirsi, cosa indossare. Due le conclusioni del reporter tedesco.
La prima: i raid aerei sono del tutto insufficienti e dovrà essere l'islam moderato ad arginare gli jihadisti. «Sono estremamente brutali, i più pericolosi nemici mai visti. Sono molto pessimista». La seconda: se non ci fosse stata la guerra di George Bush figlio contro Saddam Hussein «oggi non avremmo l'Isis».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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