Un atto dovuto? Forse, un atto voluto, come ha titolato ieri con malcelato orgoglio il Manifesto. Si dice, anzi è quasi un coro, che Francesco Lo Voi, procuratore della Repubblica di Roma non avesse scelta e abbia fatto quel che gli imponeva la legge. O meglio, la norma che ordina ai pm di spedire a razzo al Tribunale dei ministri «omessa ogni indagine», il fascicolo appena formato, in questo caso con le accuse contenute nell'esposto dell'avvocato Luigi Li Gotti.
La teoria però contrasta con le più elementari regole del buonsenso. Di più, anche se nessuno o quasi sembra essersene accorto, fa a pugni con il codice di procedura penale, nella sua formulazione più recente. Un conto infatti è indagare, altra cosa è valutare se l'esposto o la notizia di reato abbia un fondamento. Qui la decisione del pm è fondamentale e nessuno può pensare che un procuratore della Repubblica sia un mero passacarte. Se così fosse, il pm si esporrebbe al rischio di essere strumentalizzato, diventando un diffusore di potenziali calunnie, in questo caso un postino di possibili menzogne consegnate direttamente al Collegio.
No, non è così e sia pure a denti stretti è la stessa Associazione nazionale magistrati a riconoscerlo, come remota possibilità. «Solo in caso di denunce manifestamente infondate e fantasiose - spiega all'Ansa il segretario generale dell'Anm Salvatore Casciaro - ci potrebbe forse essere un margine ridottissimo di valutazione ed evidentemente non è stato ritenuto un caso rientrante in questa tipologia».
Insomma, una valutazione è stata fatta, anche se poi la procura non ha acquisito nemmeno le comunicazioni fra i diversi soggetti coinvolti e l'ordinanza di custodia della Corte d'appello. È però si è stabilito di iscrivere nel registro degli indagati non solo il Guardasigilli Carlo Nordio, sulla carta il ministro più vicino all'intrigo internazionale, ma anche la premier, il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi e il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Alfredo Mantovano. Una scelta nella scelta che ha innescato la bomba mediatico-politica.
Tutto dovuto? Sulla base di quali elementi? Solo qualche foglio scritto al computer da un avvocato che sembra essersi basato solo sulla lettura dei giornali?
Un atto voluto, se ha senso questa interpretazione: mandare avanti il dossier Li Gotti e coinvolgere fatalmente mezzo governo in questa indagine, ora affidata al Tribunale dei ministri.
E qui si arriva all'articolo 335 comma 1 bis del codice di procedura penale, modificato con la riforma Cartabia. «Il pubblico ministero - recita il codice - provvede all'iscrizione del nome della persona alla quale il reato è attribuito non appena risultino, contestualmente all'istruzione della notizia di reato o successivamente, indizi a suo carico».
La parola chiave è dunque indizi. Si apre un fascicolo se non è manifestamente infondato e non è manifestamente infondato se si avvistano degli indizi. Non si devono svolgere indagini, ma verifiche minime si. Sì sono iscritte quattro persone, tutte con ruoli apicali nel Paese. E gli indizi? Indizi, che, a leggere il codice, dovevano forse essere cercati dal Procuratore della repubblica, non dal Tribunale dei ministri che valuterà invece se chiedere al Parlamento l'autorizzazione a procedere.
Non a caso, l'articolo 335 riprende una vecchia circolare, pure dimenticata, e firmata da Giuseppe Pignatone nel 2017. «Non iscrizioni automatiche - raccomandava il 2 ottobre 2017 l'allora procuratore della repubblica di Roma - basate su una lettura meccanica della normativa» che finiscono «per attribuire impropriamente alla polizia giudiziaria - o addirittura al privato denunciante - il potere di disporre in ordine alle iscrizioni, ma invece una valutazione affidata al potere esclusivo del pubblico ministero».
Parole profetiche,
quelle di Pignatone, oggi nel codice, ma oggetto di una singolare amnesia collettiva. I sospetti non bastano, ci vogliono gli indizi. E ci vuole la vecchia virtù della prudenza. Ma qui ci sono solo ritagli dei quotidiani.
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