Autostrade e dighe incompiute, ponti interrotti: il partito del "non fare" ci costa 600 miliardi

Il peso di lungaggini burocratiche e proteste: le opere pubbliche in stallo sono 342

Autostrade e dighe incompiute, ponti interrotti: il partito del "non fare" ci  costa 600 miliardi

Roma - «Non ci arrendiamo», ha dichiarato battagliero il governatore pugliese e candidato alla segreteria Pd, Michele Emiliano, contestando la sentenza del Tar che di fatto ha dato l'ok al gasdotto Tap consentendo l'espianto degli ulivi nell'area in cui dovrebbe sorgere l'infrastruttura. Ma gli imitatori di Emiliano in Italia sono tanti. A partire dai governi Renzi e Gentiloni che da due anni tengono chiusa in un cassetto la Carta delle aree potenzialmente idonee al Deposito nazionale delle scorie radioattive: un'opera necessaria ma della quale nessun politico vuole assumersi la responsabilità, ben sapendo che qualunque sia il sito prescelto si scateneranno proteste che ne minerebbero la popolarità. E così il partito del «non fare» ci costa 606 miliardi.

È quanto ha calcolato - tramite una semplice somma algebrica dei costi e dei benefici - la società di consulenza Agici sommando il valore degli impianti che servirebbero al Paese e che, tra lungaggini burocratiche ed ecotalebani, vengono bloccate. A sorpresa circa i due terzi del conto (379 miliardi) sono imputabili alle infrastrutture per le telecomunicazioni, in particolare a quelle per l'ampliamento della rete a banda larga. A fronte di 140 miliardi di investimenti si avrebbero ricadute positive per 530 miliardi soprattutto sottoforma di crescita della produttività del lavoro. In questo caso, più che i «no qualsiasi cosa» è la politica a stessa ad aver rappresentato un freno essendosi sostituita all'operatore privato proprietario della rete.

La classifica di Agici vede la logistica al secondo posto (57,8 miliardi) a causa dei mancati investimenti in porti e interporti. Poco distanziati al terzo posto i 55,7 miliardi del settore energetico che tra rete di distribuzione e impianti di produzione. Gli esempio non mancano? Dai «no Tap» ai «no triv» il passo è breve. Non a caso l'inglese Rockhopper ha citato in giudizio lo Stato italiano per lo stop alle trivellazioni entro le 12 miglia marine decretato dall'ultima legge di Bilancio chiedendo un risarcimento di 160 milioni per l'impossibilità di sfruttare il giacimento Ombrina Mare al largo delle coste abruzzesi.

Seguono le ferrovie con il «pizzo» da 55,6 miliardi da pagare ai «no Tav». La mancata manutenzione di pozzi e acquedotti è un macigno da 31,7 miliardi, mentre i «no strade e autostrade» ci sottraggono 23,8 miliardi di benefici. Chiude la graduatoria la gestione del ciclo dei rifiuti (2,4 miliardi).

Il monitoraggio effettuato dall'Osservatorio permanente «Nimby Forum» su tutta la stampa nazionale nel 2015 ha evidenziato che la colpa di questa inerzia non è degli irriducibili ambientalisti che incidono solo nel 15,6% dei casi, ma della politica, dei partiti e degli enti pubblici che mettono i bastoni fra le ruote nel 45,6% dei casi. Come abbiamo visto nel caso del governatore pugliese Emiliano o del sindaco di Roma, Virginia Raggi, che ha bloccato con un no i cantieri per le Olimpiadi, ha ridimensionato lo Stadio della Roma e ha di fatto rallentato l'iter della terza linea metropolitana. Poi ci sono i tanti casi locali dei no ai termovalorizzatori o a qualsiasi opera pubblica (che vale uno stop nel 35,6% dei casi). Le opere contestate, ha osservato il Nimby Forum, sono state 342, in lieve calo rispetto agli anni precedenti.

Ma non perché in Italia si realizzino più opere. È solo perché, come visto per il deposito nazionale, la politica e le imprese decidono di non farle più. I voti vengono così messi in cassaforte, gli investimenti arretrano e il Pil langue.

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