«L'antimafia che sposo è sicuramente quella basata, in primo luogo, sui fatti». Roberto Lagalla, sindaco di Palermo, spazza via così ogni eventuale polemica sulle sue parole pronunciate ieri in occasioni di convegno sul contrasto alle mafie.
Sindaco, a quali fatti si riferisce?
«Mi riferisco a quell'antimafia praticata, ad esempio, in silenzio da quei magistrati, coadiuvati dall'impegno e dall'azione delle Forze dell'ordine, che ha permesso e permette ancora oggi di contrastare la forza criminale di Cosa nostra che oggi continua a fare affari con le estorsioni e il traffico di stupefacenti, come dimostrano anche le operazioni di polizia degli ultimi giorni. L'antimafia dei fatti, però, deve essere praticata anche dalle istituzioni e dai suoi rappresentanti. Seppellire circa 1.400 bare rimaste nei depositi per oltre tre anni nel cimitero di Palermo e abbattere 72 tombe abusive costruite dai mafiosi, come è riuscita a fare l'amministrazione che guido, credo siano azioni che vanno proprio nella direzione dell'antimafia dei fatti e siano significative affermazioni di legalità».
Cosa rappresenta per lei la figura di Paolo Borsellino?
«Uno degli eroi dell'antimafia che oggi rimpiangiamo e senza i quali lo Stato non avrebbe compiuto passi decisivi in avanti nella lotta alla criminalità organizzata. Paolo Borsellino e altri martiri non ci sono più, ma il loro insegnamento e la loro testimonianza non vanno dispersi ed è nostro compito quello di tradurli in comportamenti trasparenti in linea con quell'antimafia del fare di cui parlavo».
Perché ha criticato la cosiddetta «antimafia ereditaria»?
«Tengo subito a precisare che in questa espressione non c'era alcun riferimento ai parenti delle vittime di mafia, per i quali nutro profondo rispetto. Semmai, mi riferisco a quelle sigle o associazioni rassicuranti che avrebbero dovuto suggerire a educare al valore del giudizio e, invece, fanno a gara per distribuire patenti di incorruttibilità e sicura legalità e per raggiungere il primato dell'intransigenza e della purezza. Quelle realtà che, appunto, ereditano preconcetti che assumono sembianze di verità, andando contro, a volte, anche a sentenze passate in giudicato».
L'antimafia non dovrebbe avere colore politico eppure, spesso, la sinistra ha mostrato una certa superiorità morale anche in questo campo. Perché, secondo lei, manca uno spirito di unità nazionale persino nella lotta alle mafie?
«Prima di tutto, non esiste un'antimafia di destra o di sinistra. Per questa ragione, ho molto apprezzato il responsabile e recente intervento del Presidente del Tribunale di Palermo, Piergiorgio Morosini, e l'azione di quanti hanno voluto richiamare alla dimensione di un'antimafia basata sui fatti, sul contributo concreto al bene comune, indipendentemente da posizioni politiche, pregiudizi personali o di gruppo, ostracismi di ogni tipo. L'antimafia dovrebbe unire e, invece, si sono create delle divaricazioni che hanno un effetto pericoloso, ovvero il rischio di disorientare l'opinione pubblica che, di certo, ama i suoi Eroi per la legalità, ma assiste attonita a certe prese di posizione».
Pietro Grasso, Franco Roberti e Cafiero De Raho.
Cosa pensa del fatto che spesso il ruolo di procuratore antimafia è stato usato come trampolino di lancio per fare politica?«Non è mia abitudine giudicare scelte personali altrui, convinto nella buonafede di chi abbia voluto trasferire il grande impegno in magistratura anche in politica, come hanno fatto, ad esempio, queste figure».
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