Joe Biden ha alzato il telefono per rassicurare gli alleati occidentali del fronte anti Putin. «Continuiamo a coordinarci nel sostegno all'Ucraina», il messaggio. Tradotto: «Tranquilli, nonostante le apparenze, è tutto sotto controllo». Ad ascoltare le sue parole, tutti i leader dei Paesi che in questi 19 mesi di guerra hanno fornito i maggiori aiuti a Kiev. Dal britannico Sunak, al cancelliere Scholz, alla premier Meloni.
Al di là dei comunicati ufficiali, è difficile capire quanto il presidente Usa sia riuscito a fugare i dubbi che probabilmente serpeggiano tra gli alleati, dopo che la scorsa settimana a Capitol Hill è andato in scena lo psicodramma dello shutdown. Dal temporaneo compromesso raggiunto tra Repubblicani e Democratici per mantenere in funzione il governo federale, in attesa di un accordo definitivo per il nuovo anno fiscale, sono rimaste escluse proprio le spese militari per Kiev. Così hanno voluto gli estremisti «Maga» del Partito repubblicano alla Camera, che hanno messo in pratica quanto avevano annunciato a inizio legislatura: «Basta assegni in bianco all'Ucraina». A poco è servita, in questo senso, la recente visita di Volodymyr Zelensky a Washington, al quale stavolta non è stato concesso l'onore di un discorso a Camere riunite, ma solo incontri a porte chiuse per discutere dell'andamento della guerra.
Lo scontro interno al Gop ha travolto lo speaker Kevin McCarthy, accusato dai «duri e puri» di essere troppo tenero con Biden e troppo filo-Kiev. In serata è passata la mozione di sfiducia del trumpiano Matt Gaetz, la prima di questo tipo in 100 anni, con la quale lo speaker è stato destituito (216 voti favorevoli, e 210 contrari). Anche se i numeri al Congresso continuano a dare ragione al fronte anti Putin, si tratta della fine di quell'ampio consenso bipartisan finora garantito all'Ucraina. Per Biden è forse il momento più delicato dall'inizio del conflitto, quando nel giro di poche settimane, riuscì a costruire una formidabile alleanza, incentrata su Nato, G7 e Unione Europea. Che la questione sia seria lo certifica la lettera che il Pentagono ha inviato lunedì ai leader del Congresso. «Stiamo esaurendo i fondi per rimpiazzare le armi che preleviamo dai nostri arsenali e inviamo sul fronte ucraino», è il senso dell'allarme lanciato dal sottosegretario alla Difesa, Michael McCord. Su 25,9 miliardi di dollari stanziati, ne sono rimasti in cassa appena 1,6 miliardi. «Abbiamo risorse per altri due mesi», ha poi chiarito la Casa Bianca, che ha chiesto al Congresso di «agire e dare un segnale forte», perché «il mondo ci sta guardando».
Alla stessa casa Bianca non sfugge che le difficoltà interne rischiano di ripercuotersi in Europa, non solo sul campo di battaglia militare, ma anche su quello politico. Al generale rallentamento dell'economia Ue, che può incidere sugli aiuti a Kiev, si aggiungono le voci dissonanti di Paesi come Ungheria e Slovacchia, contrari all'invio di nuove armi. Proprio l'erosione del consenso politico alla guerra sarebbe l'obiettivo a medio-lungo termine sul quale punta Vladimir Putin, secondo fonti di intelligence Usa citate in questi giorni dal New York Times.
Attraverso un'azione concertata delle sue varie agenzie, Mosca starebbe mettendo in campo una vasta azione di disinformazione a favore dei candidati politici filo russi in vari Paesi: dalla diffusione di teorie cospirazioniste a «deepfake» creati con le nuove tecnologie. È la «Dezinformatsia» di staliniana memoria, che torna sempre utile nei momenti di crisi. Tutto questo, alla vigilia di complicate stagioni elettorali, in America e in Europa.
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