Il risultato ufficiale delle presidenziali bielorusse tenute ieri non ha alcuna importanza. Fantomatici exit poll segnalano che Aleksandar Lukashenko verrà proclamato presidente per la settima volta consecutiva dal 1994 con l'87,6% dei voti. Ma conta zero, perché ai veri avversari politici del «piccolo padre» (come ama farsi chiamare in stile staliniano) non è stato consentito di candidarsi alle elezioni. Perché le carceri del Paese sono piene di oppositori del regime. Perché la vera vincitrice delle presidenziali del 2020, la filo europea Svetlana Tsikhanouskaya, è costretta all'esilio in Lituania mentre suo marito, che aveva osato candidarsi prima di lei contro Lukashenko, è in galera da allora e non se ne hanno notizie da due anni. Perché i 3,5 milioni di bielorussi all'estero non possono votare. E perché gli onesti cittadini che, dopo la rapina elettorale del 9 agosto 2020, avevano protestato per mesi a centinaia di migliaia nelle strade della capitale Minsk, oggi sono talmente terrorizzati dalle violenze subite dai picchiatori di regime in divisa nera e volto coperto che la stessa Tsikhanouskaya ha chiesto loro di non farsi vedere in giro: troppo pericoloso, meglio limitarsi a votare contro tutti i candidati, anche se non serve a niente.
Il «trionfo elettorale» di Lukashenko ricalca anche moralmente l'87% con cui alle ultime presidenziali in Russia Vladimir Putin pretese di aver stravinto democraticamente. Barando in realtà nello stesso identico modo: impedendo ai candidati di vera opposizione di vedere il loro nome sulla scheda elettorale, sbattendo in galera i più coriacei, consentendo la candidatura soltanto a finti oppositori prezzolati che dichiarano di augurarsi la vittoria del Capo e ricorrendo comunque a brogli grossolani. In queste condizioni si vince facile, e in Occidente troverai perfino qualcuno disposto a parlare di genuino consenso a un dittatore.
Ieri il settantenne Lukashenko, che fino al 1994 dirigeva un'impresa agricola statale di stampo sovietico, si è presentato al seggio con un impeccabile completo e col suo cagnolino bianco, scortato da qualche bravaccio. Ha depositato la sua scheda nell'urna, ha distribuito sorrisi ai presenti e ha definito quella bielorussa «una democrazia tosta»: chi vuol capire, capisce. In seguito, ha dichiarato che non gli importa nulla se anche stavolta le autorità europee non riconosceranno la sua vittoria: Lukashenko va fiero dei suoi trent'anni al potere che si avviano a diventare 35. Per garantirseli, ha anche minacciato gli oppositori del 2020 in puro stile mafioso: «Vi teniamo d'occhio, vi consiglio di pentirvi».
Al cospetto dello «zar» che lo mantiene in sella, però, il piccolo padre bielorusso è molto più umile. Cambia linguaggio e dice sempre di sì. Anche ieri ha detto senza vergogna di non avere rimorsi per aver consentito a Putin di usare il territorio del suo Paese per aggredire la confinante Ucraina. La Bielorussia ospita anche basi aeree e missili con testata atomica russi, e il mese scorso Lukashenko ha detto che «se vorranno portarne qui di più, per noi andrà benissimo».
È questo vassallaggio imposto contro la volontà popolare il tipo di «indipendenza nazionale» che Putin concede oggi alla Bielorussia.
Lo stesso che vorrebbe imporre con le armi all'Ucraina, il cui popolo combatte da tre anni per non doverlo subire, e che sta cercando d'imporre alla Georgia attraverso un altro Lukashenko. Anche per questo l'Alta Rappresentante dell'Ue per gli Affari Esteri ha annunciato che Bruxelles non ritirerà le sanzioni contro il regime Lukashenko dopo le «finte» elezioni presidenziali appena chiuse nel Paese.
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