A pari merito con l'Egitto e appena sopra l'Algeria. In una classifica che misura la violazioni dei diritti umani nella repressione del reato di blasfemia, l'Italia esce piuttosto male. Con il punteggio più alto, a indicare gli abusi peggiori, troviamo l'Iran (66,7 punti). Seguono Pakistan, Yemen. Somalia e Qatar. Con 56,2 punti l'Italia è sesta, appaiata all'Egitto. La lista va avanti con Algeria, Comore, Malta, Libia, Arabia Saudita, Bahrein, e passa in rivista la quasi totalità del mondo islamico per chiudersi invece con Filippine, Spagna e Irlanda (25 punti), Paesi dove l'abuso contro i bestemmiatori non è di casa. Non avendo avuto notizie né di impiccagioni in piazza né di pubbliche fustigazioni abbiamo chiesto a Joelle Fiss, una delle coautrici dello studio americano, perché il Belpaese si trovi in così mesta compagnia.
Esperta di diritti umani e libertà religiosa, Fiss non si fa trovare impreparata. «Siamo consapevoli che la metodologia da noi utilizzata sarebbe stata contestata. In primo luogo abbiamo descritto il dettato della legge in ogni Paese in cui la blasfemia sia considerata reato e misurato la distanza fra la legge e il diritto internazionale», dice al Giornale. Sotto questo profilo gli articoli 402, 403 e 404 del codice penale procurano all'Italia il non commendevole posizionamento. Come un dottor Frankestein spaventato dalla sua stessa creatura, Fiss è la prima a riconoscere che «il caso dell'Italia è un'anomalia. Noi sappiamo che nel 2000 la Corte costituzionale ha disapplicato gli articoli sulla blasfemia, ma ci risulta che gli stessi siano formalmente ancora parte del codice penale, e noi li abbiamo tenuti considerazione». La stessa Fiss ricorda che descrivere una legge e valutarla in basa a criteri come tutela della libertà religiosa e di espressione, gravità delle pene o discriminazioni di gruppi religiosi «è solo l'inizio dell'opera». Perché bisogna poi tenere in considerazione anche una serie di fattori, fra i quali «il contesto politico e giudiziario, l'atteggiamento dell'opinione pubblica verso la religione, il livello di violenza registrato nel Paese».
Ecco perché la classifica dei 71 Paesi va presa cum grano salis. Il rapporto menziona per esempio un caso opposto, quello del Bangladesh. Privo di leggi draconiane contro la blasfemia, il Paese asiatico ha solo 32 punti ma «nel 2015 quattro bengalesi sono stati assassinati per i loro scritti sulla laicità dello Stato e la libertà di pensiero», mentre «Al Qaida e altri movimenti jihadisti riprende Fiss pubblicano regolarmente il nome di apostati e atei da eliminare». Oppure ricorda il caso dell'Arabia Saudita, «che ha meno punti dell'Italia solo per la vaghezza della legge: qua i giudici sono liberi di infliggere pene terribili». Quanto ai giudici pachistani, la loro formazione in stile britannico non serve a nulla «perché vengono intimiditi se non condannano, così come gli avvocati degli accusati di blasfemia rischiano la loro stessa vita». Fiss menziona anche il caso di Asia Bibi (condannata per aver offeso Maometto) e quello del governatore del Punjab, Salman Taseer, e dell'ex ministro per gli Affari religiosi, il cristiano Shahbaz Bhatti, uccisi per aver tentato di emendare la legge.
Infine menziona i copti, minoranza cristiana d'Egitto: «Sono vittime ricorrenti della legge contro la blasfemia: solo nel 2015 si sono contati 21 casi di abuso». Fiss si augura che, a fini di chiarezza, «l'Italia possa abrogare la legge disapplicata». Il rapporto però parla chiaro: la maggior parte degli abusi avviene nel mondo arabo e islamico.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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