C'è davvero molto di spropositato nella multa che l'Unione europea, dopo tre anni di indagini, ha comminato all'Apple, non sufficientemente tassata dall'Irlanda e quindi considerata destinataria di un aiuto di Stato: in contravvenzione delle regole comunitarie. E a essere spropositata è non solo la somma che il colosso americano dovrà ora versare a Dublino, ma anche la pretesa che si cela dietro alla costante strategia degli eurocrati. Lo schema è chiaro: passo dopo passo, si vuole gestire il Vecchio Continente come un unico Stato, anche se esso non è tale ed è bene che non lo sia. È proprio questa progetto irragionevole che connette tale episodio a molti altri: alla storica battaglia condotta dall'allora commissario Mario Monti contro la Microsoft, ma anche alle contestazioni degli accordi tra Ryanair e varie autorità locali, all'ostilità per le politiche attrattive adottate dal Lussemburgo, alla costante pressione operata sulla Svizzera, eccetera.
La super-multa contro la Apple la dice lunga sulla logica dell'Unione, che in un'economia europea oppressa dalle tasse prende di mira questo o quello Stato membro non già quando ha prelievi troppo elevati (come nel caso dell'Italia), quando invece cerca di tenere basse le aliquote e attirare investimenti. In Europa, insomma, o hai una tassazione che distrugge le imprese e inibisce i capitali, oppure finisci nel mirino della Commissione. Il motivo è che le classi politiche dei Paesi maggiori, incapaci di riformare la propria finanza pubblica, malsopportano la competizione di chi è in grado di offrire condizioni migliori a capitali e imprese.
L'argomento degli aiuti di Stato, con il suo richiamo al principio di universalità (secondo il quale nessuno deve ricevere trattamenti privilegiati), fa poi sorridere di fronte alla constatazione che chi punta il dito vara costantemente politiche discrezionali. Né gli eurocrati si sono mai davvero mossi per impedire, in Italia, il finanziamento della Rai o per eliminare una volta per tutte le condizioni speciali riservate ai monopoli pubblici, da Poste Italiane a Ferrovie dello Stato.
Per giunta, questa guerra contro la bassa tassazione irlandese su Apple comporta il rifiuto di un'evidenza: del fatto che un Paese storicamente piagato da fame ed emigrazione sia riuscito a imporsi quale modello di successo (con redditi più alti di quelli italiani). A Bruxelles hanno sempre ostacolato le strategie fiscali di Dublino, che ha creato porti franchi per richiamare investimenti. Le sagge politiche irlandesi non sono mai state apprezzate dall'Europa, perché ai tartassatori non piace questa idea di un potere che restringe i propri spazi, contenendo spese ed entrate.
C'è poi da aggiungere che tale vertenza con l'economia americana ha luogo proprio nel momento in cui l'Unione ha perso in larga misura il mercato russo, a causa delle sanzioni successive alla crisi ucraina. Così, dopo il fallimento decretato da francesi e tedeschi del trattato di libero scambio con gli Usa, c'è il rischio che si restringa ulteriormente l'interconnessione tra europei e nordamericani. Con ripercussioni che sarebbero dolorose: anche in termini di posti di lavoro.
Va infine ricordato che, prendendo tutto il tempo che gli è necessario a fare le cose per bene, il Regno Unito sta per lasciare l'Unione. Far fallire il Ttip e colpire in tal modo Irlanda ed Apple può solo favorire sotto certi punti di vista proprio i britannici, che presto si troveranno nella condizione della Svizzera o della Norvegia, e che non vedono l'ora di aprirsi il più possibile al mercato nordamericano.
È comprensibile che il piccolo imprenditore italiano, oppresso da imposte che talvolta gli tolgono l'80% del reddito, possa gioire di fronte a questa stangata ai danni della multinazionale.
Dobbiamo però essere consapevoli che un'ingiustizia universalizzata non è meno ingiusta e che il miracolo irlandese si basò su esenzioni che vennero in seguito estese a tutti e favorirono lo sviluppo. L'Europa non l'intende e va nella direzione opposta, ma siamo sicuri che stia operando al meglio?
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