Tra il Pd e Carlo Calenda il cerino del «chi rompe con chi» continua a passare di mano. «Sono pronto a incontrarli, ma senza veti e sportellate», dice Enrico Letta. «Vediamoci e chiudiamo, in un senso o nell'altro», replica Calenda.
L'incontro ci sarà (stamattina nel campo neutro della Camera). Ma l'impressione più diffusa tra i protagonisti della vicenda, confermata dallo scambio di accuse e controaccuse tra i due leader, è che l'epopea dell'alleanza tra Azione e centrosinistra sia quasi finita. E che lo stesso leader dem abbia lavorato in questo senso, per una ragione che lo stesso Calenda ieri sera così riassumeva, con il consueto piglio reciso, con i suoi: «Enrico vuole solo rompere, perché il suo unico obiettivo non è vincere contro il centrodestra. È che il Pd prenda un voto più della Meloni, e si possa proclamare primo partito italiano». In questo modo, è il sottinteso, Letta riuscirebbe, nonostante la sconfitta alle elezioni del 25 settembre, a blindare la propria posizione: chi si chiederebbe un congresso contro colui che ha guidato il partito in vetta alla classifica?
La stessa impressione circola tra i maggiorenti dem, che ieri hanno partecipato alla lunga riunione di «segreteria allargata» (leggi: dei capi-corrente) al Nazareno: Letta ha spiegato che «l'accordo è sempre più lontano», che «le condizioni poste da Calenda sono surreali», che c'è poco da fare a parte lanciare vaghi appelli all'unità. E la ragione, secondo i più, è che il segretario Pd vede Azione, dentro la coalizione, come un pericolo per il Pd: «Ci toglierebbe parecchi voti», spiegano. Mentre se resta fuori si può trattare da pericoloso avversario che fa il gioco delle destre, e blindare il proprio elettorato. E pazienza per quei 16 collegi che (secondo le stime di Youtrend) l'alleanza coi calendiani porterebbe in dote.
«Ma che, è una risposta questa?». A metà pomeriggio, quando sui cellulari del quartier generale di Carlo Calenda rimbalza l'«appello» del Pd all'unità delle forze perché «ogni divisione sarebbe un regalo alle destre», il leader di Azione si mostra stupito. «Letta dice incontriamoci ma patti chiari? I patti sono chiarissimi: non vogliamo nei collegi uninominali chi ha sempre votato contro Draghi, così come noi ci siamo impegnati a non candidare nei collegi comuni personalità divisive per il centrosinistra (come le ex ministre di Forza Italia Carfagna e Gelmini)». E poi, incalzano sia il leader di Azione che quello di Più Europa Benedetto Della Vedova, ci sono le questioni programmatiche: l'agenda Draghi come bandiera, il no a aumenti delle tasse, la modifica del reddito di cittadinanza, un sì netto (che dal Pd non è mai arrivato) ai rigassificatori, Piombino in testa, che possono salvare l'Italia dalla dipendenza da gas del macellaio Putin. «Sono temi che hai sul tavolo da giorni. È legittimo dire non riesco a dire sì, ma chiudiamo questa partita».
Attorno a Calenda, intanto, le spinte sono contrapposte: da un lato i radicali boniniani - sottoposti a pressing e lusinghe del Pd affinché mollino Azione, costringendola a raccogliere le firme per presentare le liste - che premono per l'accordo: «Il solo sospetto che, volenti o nolenti, diamo un voto in più alla destra putiniana è inaccettabile», dice Emma Bonino. Dall'altra gli ex di Forza Italia che pressano per andare da soli: «Solo così possiamo intercettare il voto moderato in fuga da Meloni e Salvini». In mezzo, quelli preoccupati dalla «guerra di propaganda» che, in caso di non accordo, il Pd scatenerà contro i reprobi: «Vedrete come i media filo-centrosinistra ci bastoneranno ogni giorno, accusandoci di essere complici della destra e scaricandoci addosso la colpa di una sconfitta già scritta», dice un ex Pd che conosce i suoi polli.
Fuori dal perimetro calendiano, Matteo Renzi aspetta con ansia la rottura con il Pd per costruire il «terzo polo». Calenda avverte: «La palla ora è nel campo del Pd, e così la responsabilità di ciò che deciderà di fare». Ma la fine, secondo i più, è già scritta.
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