Le gravi difficoltà dei colossi immobiliari Evergrande e Country Garden - con i loro 500 miliardi di debito - non fanno dormire tranquilla la Cina. E filtrano nuove informazioni sulla crisi: è di ieri, infatti, la notizia che il numero di immobili pignorati messi all'asta sotto la Grande Muraglia è salito di quasi il 20% annuo (a 304mila proprietà, di cui 179mila case) nella prima metà del 2023, in scia al deterioramento dell'economia nella fase post-Covid e alle crescenti difficoltà sui rimborsi delle rate dei mutui.
Alcuni parlano del rischio di una nuova «Lehman Brothers» cinese, lo stato-partito guidato da Xi Jinping respinge questa narrazione pur essendo consapevole che stavolta ci sarà da sudare. Un autorevole economista americano, James Galbraith, gli dà pure ragione: scrive in un editoriale sul South China Morning Post che la narrazione del declino cinese dagli Stati Uniti «guarda alle presidenziali del 2024». Vale a dire, è un'amplificazione capziosa delle difficoltà di Pechino volte a «confermare ciò che agli occidentali piace credere: l'inevitabile trionfo del capitalismo e della democrazia». La sensazione, però, è che stavolta i problemi del Dragone siano ben di più di una semplice narrazione e che la crisi immobiliare sia solo la punta dell'iceberg di una serie di nodi che semplicemente stanno venendo al pettine nell'esatto momento in cui la locomotiva cinese da due anni cresce un po' meno rispetto al solito ritmo forsennato (quest'anno potrebbe non centrare l'obiettivo del 5%).
La bolla immobiliare che rischia di esplodere, con la popolazione cinese che non compra abbastanza case e gli appartamenti che restano invenduti è il sintomo più evidente di anni di scelte sbagliate: a partire da una politica zero Covid che ha fiaccato l'economia con il lockdown più lungo (tre anni) e duro del mondo. Il danno ha minato le finanze di famiglie e di milioni di piccole imprese, facendo evaporare i risparmi che poi si sono tradotti in consumi fiacchi e deflazione. A giugno è esplosa la disoccupazione giovanile al 21,3%, con il regime comunista che ha deciso di non pubblicare i dati di luglio. La fatica a trovare un lavoro per le nuove generazioni, associato al fatto che la fertilità è scesa a 1,09 figli per donna, ai minimi storici (peggio anche dell'Italia che è a 1,25). Sono sintomi che il regime di Xi non sta riuscendo a invertire la rotta, dopo che nel 2013 è stata abolita la politica del figlio unico e dal 2021 è possibile anche avere tre figli. E la crisi demografica è legata a doppio filo con quella del mattone: non avere più un numero sufficiente di giovani per giustificare un completo rinnovamento del ciclo immobiliare è un vero macigno in prospettiva per un settore che vale tra il 20 e il 30% del Pil. Non ha fatto bene all'immagine della Cina, poi, l'ondata di repressione sulle aziende tecnologiche iniziata nel novembre 2020 con lo stop alla quotazione di Ant Group, società del gruppo Alibaba con in pancia Alipay che è la piattaforma di pagamenti più grande al mondo. Avrebbe dovuto dare vita all'Ipo più ricca della storia con la raccolta di 34,5 miliardi di dollari. E invece il partito, per punire l'insubordinazione del fondatore di Alibaba Jack Ma, stoppò la quotazione all'ultimo minuto e l'imprenditore simbolo del boom tecnologico cinese sparì dalla circolazione per mesi. Oggi Ma ha ceduto il controllo di Ant Group. Il giro di vite contro lo strapotere delle big tech ha coinvolto l'Uber cinese Didi Global e le società produttrici di videogiochi come il colosso Tencent. Rigurgiti di dirigismo che hanno fatto male al mercato azionario con l'indice Hang Seng di Hong Kong sotto del 38% rispetto ai massimi di aprile 2019 e l'indice Csi 300, che raccoglie i titoli a maggiore capitalizzazione delle Borse di Shenzen e Shanghai, sotto del 27% dai massimi del 2021.
Chiudono il quadro l'amicizia «solida come la roccia» con la Russia di Vladimir Putin, le esercitazioni militari su Taiwan e le tensioni commerciali con gli Stati Uniti.
E ci sono dati che sono un po' il simbolo di un vento che pare cambiato: gli investimenti stranieri diretti in Cina sono calati del 4% nei primi sette mesi del 2023. Così come l'export, che fa segnare un -14,5% a luglio su base annua.
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