Il caso Jobs Act scuote il Pd. Orlando: "Ora va modificato"

Minoranza pronta a votare Sì al referendum Cgil. E il Guardasigilli avvisa: "Basta sfide muscolari"

Il ministro della Giustizia Andrea Orlando
Il ministro della Giustizia Andrea Orlando

Sarà perché è nato in e per un sistema bipolare che non esiste più. Sarà perché non ha mai sciolto le contraddizioni politiche, immaginando di poterle scansare ora con il «collettivo» alla Bersani, ora con il «genio oriundo» Renzi. Ma i nodi vengono al pettine, e chissà che stavolta non strozzino l'ipocrita fantasia denominata Pd.

In attesa di capire se il premier Gentiloni avrà stoffa e sponde per «addormentare» una partita che si mette malissimo; in attesa di sapere se il segretario deciderà di formalizzare delle dimissioni (più o meno vere), con conseguente anticipo del congresso e ipotesi di «primarie aperte» a marzo (alle Idi, o forse il 5), sull'Assemblea di domenica piomba violentemente un'altra delle questioni a lungo nascoste sotto il tappeto. Quella del nocciolo duro del riformismo renziano, che non era affatto costituito dalla «degradazione» del Senato, quanto il Jobs Act. L'improvvida uscita del ministro Poletti al riguardo, «facciamo le elezioni così disinneschiamo il referendum», oltre ad aver indignato la Cgil e fatto scoprire il piano di Renzi, ha indotto la sinistra «dem» a rompere gli indugi. Anche perché per l'ex premier la legge sul lavoro resta «immodificabile e «non possiamo dire di aver scherzato». Ma il leader ufficiale della minoranza, Roberto Speranza già annuncia che voterebbe «Sì» al quesito referendario. «Ci sono istanze di una parte della nostra gente... Vogliamo far finta di non vedere che si deve mettere mano al sistema dei voucher?».

Si dilania così ancora una volta la finta unanimità dorotea dell'incondizionato appoggio a Renzi. In soldoni, l'asse Franceschini-Orlando, ovvero il ventre molle ex dc e i Giovani turchi. Finché era stato infatti Epifani (ex leader Cgil e Pd) a protestare e chiedere modifiche, passi. Ma ieri a scendere in campo in opposizione a Renzi (praticamente la prima volta) è stato l'attivissimo guardasigilli Orlando, ritenendo indispensabile «evitare che la questione venga risolta ancora una volta da un referendum». Perché, ragiona, se pure «dobbiamo guidare il Paese verso le elezioni», lo scopo del voto «non può essere evitare il referendum, non possiamo andare avanti costantemente con sfide muscolari». E comunque, «prima di dare il via a una campagna per le primarie che rischia di essere una disfida pre-elettorale, sarebbe preferibile sciogliere i nodi sui quali siamo chiamati a riflettere». Una frenata nei confronti della frenesia congressuale di Renzi; anche perché, conclude il leader dei Giovani turchi, «rischieremmo di avere più candidati che idee».

Lo stato d'animo di Orlando al momento è quello che interpreta più profondamente il sentimento di un partito che, come dice la prodiana Zampa, «sta andando a scatafascio». Avvertendo il «rischio della sua esistenza», Zampa vorrebbe un congresso «quasi fondativo», da intrecciare con il percorso portato avanti dai sindaci Pisapia e Zedda, che lunedì a Bologna troverà ospitalità in una contro-Assemblea organizzata dal sindaco bolognese Merola. Scelte invise ai renziani, che le considerano, nelle parole della fedelissima Puglisi, «un randello agitato contro Renzi».

Appare chiaro, allora, come ci sia di mezzo il mare tra chi abbaia verso le elezioni e la realtà concreta (legge elettorale proporzionale, Jobs Act, crisi Pd). Solo dalla relazione di Renzi si potrà capire se «ha capito la lezione», così come raccomanda il toscano Rossi.

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