L'affermazione degli indipendentisti in Catalogna non influenzerà la politica di Matteo Salvini (da tempo impegnato su vari fronti) benché abbia scosso gli animi dei leghisti, specialmente veneti che non sopportano il cordone ombelicale con Roma. Il Leone di San Marco non ha mai smesso di ruggire, mentre Alberto da Giussano ha scelto la strada del negoziato, se non quella della diplomazia. Il segretario non ha accantonato del tutto il sogno di non stare al guinzaglio della capitale. Per il momento però si accontenterebbe di conquistare per la propria regione ampi margini di autonomia, così come i serenissimi che hanno organizzato una specie di referendum per sganciarsi quel tanto che basta dal governo centrale. Difficile ipotizzarne l'esito.
Sta di fatto che i vecchi rivoluzionari del Carroccio hanno accettato la politica dei piccoli passi imposta dai vertici del movimento. D'altronde, hanno capito che l'Italia, pur essendo come la Spagna, «una società anonima» che sarebbe bene liquidare, è cementata da vari interessi (inclusi quelli discendenti dalla corruzione) che la rendono di fatto compatta e solida. Quando fu approvato il federalismo (premier Berlusconi), molti di essi si illusero di aver vinto la battaglia del secolo. In realtà, era solo una vittoria di Pirro. La legge passata con fatica in Parlamento fu subito seppellita nell'indifferenza generale. Ma se anche fosse stata attuata non avrebbe modificato granché l'assetto nazionale.
Il federalismo approvato era all'acqua di rose, accettato da tutti: segno che non era incisivo. Non poteva esserlo, altrimenti sarebbe stato bocciato dalla stessa maggioranza, per metà costituita da meridionali ostili (quanto la sinistra intera) a un sistema veramente federalista. La speranza dei leghisti di aver strappato un provvedimento importante (da perfezionarsi col federalismo fiscale) scemò rapidamente. In effetti della questione non se ne parlò più e tuttora non se ne parla, forse per non evocare un dolore profondo in chi aveva creduto in un cambiamento radicale.
Adesso nella Lega c'è un rigurgito di indipendentismo provocato dalla spavalderia con cui i catalani hanno chiesto di staccarsi da Madrid. Ma è roba minima: sono soltanto le giovani camicie verdi a fremere dal desidero di emulare la Catalogna. Non c'è dubbio che si calmeranno presto e seguiranno Salvini su un altro sentiero di guerra: guerra a Bruxelles e alla sua burocrazia asfissiante, guerra all'euro e all'immigrazione selvaggia nonché clandestina.
Questi sono i punti cosiddetti qualificanti del programma della Lega, quelli che hanno consentito al leader milanese di resuscitare il Movimento e di assicurare ad esso un numero di consensi mai raggiunto in precedenza. Un'operazione prodigiosa, dato che il partito, a causa delle scandalo che ruppe il cerchio magico di Umberto Bossi, si era prosciugato e lasciava presagire un imminente decesso. Salvini in pratica ha compiuto un miracolo e non ha alcuna voglia di guastare il proprio giocattolo, che attira tanti voti (15 per cento, secondo i sondaggi), al solo scopo di rivitalizzare nella base l'idea della secessione.
Una scelta di buon senso che, però, non è una rinuncia definitiva. Un rinvio? Mettiamola così. Intanto, gli occhi leghisti sono fissi su Barcellona.
Veneti e lombardi sono curiosi di verificare se i catalani, dopo il trionfo alle urne, saranno in grado di incassare almeno parte di ciò che pretendono o se la bella avventura si chiuderà alla scozzese, cioè con un magro bottino.
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