A quarantotto ore dalla celebrazione del referendum di autodeterminazione, sfociato in una guerriglia urbana, tra Policia Nacional e gli indipendentisti, la Catalogna, sorda ai moniti di Madrid (sempre più lontana) e memore delle centinaia di feriti, medita sul da farsi in un mare d'incognite politiche e rancori sociali.
Con un bottino di 2,3 milioni di votanti (il 90 per cento di «sì»), risultati sicuramente viziati dall'assenza di censimento e comitato elettorale, la Generalitat continua a tracciare una rapida «roadmap» verso la Repubblica che non ammette più stop. Carles Puigdemont, il presidente, ex sindaco che di rivoluzionario non ha nemmeno l'aria e Oriol Junqueras, campione nell'inveire contro la mala Capital, sono in queste ore pronti a una dichiarazione unilaterale per proclamare la Catalogna «Stato indipendente». Glielo permette la legge votata dalla Generalitat ai primi di settembre: in caso di vittoria dei secessionisti, entro 48 ore si deve dichiarare l'indipendenza. Inoltre, il President e il suo vice sono anche pronti a consegnare al Parlament di Barcellona il risultato del referendum, «per rispettare la legge». E in onore dei «catalani che si sono presi le manganellate e i proiettili (di gomma, ndr)», ha dichiarato Jordi Sanchez, numero uno dell'Assemblea Nazionale Catalana (Anc).
Nella Capital, intanto, il premier Rajoy, ieri, ha fatto sapere che la cuestíon catalana approverà sugli scranni del parlamento soltanto il 10 ottobre con assemblea plenaria. Non c'è fretta, insomma. La crisi di Stato, aperta dai catalani, può attendere, prima le consultazioni. Lunedì pomeriggio, Rajoy, premier dal 2011, ha incontrato alla Moncloa tutti i partiti (a parte Podemos). Pedro Sanchez, il leader dei Socialisti (Psoe), l'alleato più a rischio di rottura, soprattutto dopo i fatti di Barcellona, ha chiesto al governo di «riaprire immediatamente i negoziato con Puigdemont», includendo nella trattativa anche Podemos che vuole la testa di Rajoy.
Il ministro della Giustizia di Madrid che, stranamente, ha un cognome che fa Catalá, davanti all'imminente proclamazione d'indipendenza della Comunità catalana, ha informato che il governo «userà tutti i mezzi legali a disposizione per riportare l'ordine in Catalogna». Parole che confermano il linguaggio ormai bellico tra le due capitali. Oggi, tutta la Catalogna, compreso il Barça, si ferma per uno sciopero generale che «non deve penalizzare i catalani» già sconvolti dalla guerriglia urbana, i black-out Internet e le sirene di ambulanza. Domenica fino a tarda ora a Plaza Catalunya si è celebrato il trionfo degli indipendentisti che hanno cantato il brano «No surrender» (mai arrendersi) di Bruce Springsteen, inframezzandolo con lo slogan «Oggi è nato un nuovo Paese».
Albert Rivera, leader di Ciudadanos, centrodestra, ha suggerito al premier Rajoy di giocare l'asso nella manica. Quell'art.155 della Costituzione che consente a Madrid di sospendere de facto l'autonomia della disobbediente Catalogna, esautorando così Puigdemont e chiudendo il Parlament di Barcellona, in modo da porre fine alla partita. Se ciò avvenisse, la catalogna diverrebbe una «regione ribelle» in stato d'assedio.
Intanto Puigdemont, davanti all'inerzia di Bruxelles, che solo ieri ha bofonchiato la solita retorica sui cattivi e i buoni, ha chiesto la mediazione della comunità internazionale e l'avvio di un'inchiesta sulle violenze a carico della Policia Nacional e della Guardia Civil. Alcuni Mossos, in forma anonima, da domenica stanno caricando sul Web video degli scontri da loro filmati.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.