La Catalogna va al voto. Ma il separatismo ormai non sfonda più

Sfida tra socialisti e indipendentisti. Il Covid rende incerti i risultati. E ora la destra sale

La Catalogna va al voto. Ma il separatismo ormai non sfonda più

Barcellona. In un momento ancora difficile per la crisi Covid, la Catalogna, in anticipo, torna oggi alle elezioni per rinnovare il suo Parlamento. A settembre, dopo la condanna del Tribunale Supremo per «reiterata e ostinata disobbedienza», l'allora presidente Quim Torra è stato inabilitato e, poi, sostituito ad interim dal vicepresidente Pere Aragonès. Torra nel 2019 durante il periodo elettorale, si era rifiutato di eliminare i simboli indipendentisti dai palazzi statali, Generalitat compresa, violando così l'ordine di neutralità.

Alle ultime elezioni del 2017, terminate in violenti scontri dopo l'annullamento del referendum sulla secessione e la proclamazione unilaterale della Catalogna «Repubblica Indipendente», da parte di Carles Puigdemont, in violazione della Costituzione, Madrid era intervenuta sciogliendo il Parlamento, commissariando la Catalogna e incriminando i capi dei partiti separatisti, poi condannati dal Supremo. A questo giro gli indipendentisti dovrebbero leggermente ampliare la loro risicata maggioranza del 2017, anche se gli elettori catalani ora sembrano più preoccupati del Covid che della secessione.

Il movimento indipendentista, pur godendo ancora di forti consensi, non riesce a imporsi: il «no» alla separazione è al 47,7%, il «sì» 44,2 e gli indecisi all'8,1. I catalani preferiscono maggiormente i partiti secessionisti nel voto locale, meno in quello nazionale, nonostante i separatisti giochino un ruolo decisivo nel sostegno a Madrid. L'attuale governo socialista si regge su tanti partiti autonomisti. La vittoria di domenica in Catalogna del fronte indipendentista, unita a un'apertura di Sánchez ai centristi di Ciutadans, renderà, però, ancora più intricata e irrisolvibile la questione catalana, benché la pandemia abbia ricompattato in parte la maggioranza separatista, concorde nell'accusare il Governo centrale di una gestione fallimentare del Covid che la Catalogna, da indipendente, avrebbe affrontato meglio.

Il fronte dei secessionisti è guidato da Junts per Catalunya (JxCat), Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), Candidatura d'Unitat Popular (CUP), Partit Nacionalista Català (PNC) e Partit Demòcrata Europeu Català (PDeCAT). Dai tumulti del 2017 JxCat ha continuato a portare avanti un aspro e, spesso, violento dibattito con Madrid. Sánchez è preoccupato, oggi dalle urne potrebbe formarsi una Generalitat più compatta e aggressiva. E c'è il serio rischio di una nuova ondata di guerriglia nelle città catalane.

I sondaggi danno una situazione molto simile al 2017, ma con il capolista di ERC Peres Aragonès al 23%, mentre JxCat della pasionaria separatista Laura Borrás in ribasso al 19-20%. Numeri lontani dalla maggioranza assoluta e che prospettano una Generalitat zoppicante. Tuttavia, per Madrid è più conveniente trattare a mani basse con ERC, che chiede il dialogo e che fino al 2019 ha avvantaggiato Sánchez, astenendosi in Parlamento. Madrid sa bene che una maggioranza minima tra ERC e JxCat comporterebbe nuovamente litigiosità e instabilità tra i separatisti al Governo.

Anche sul fronte unionista guidato dal Partit dels Socialistes de Catalunya (PSC), Ciutadans (Cs), Partit Popular (PP) e Vox, non dovrebbe cambiare molto, anche se Sánchez punta a strappare un 17-18% con il candidato socialista, Salvador Illa, suo ex ministro della Salute.

Atteso il crollo di Cs di Inés Arrimadas che gioverebbe ai Socialisti che diventerebbero il primo partito all'opposizione, mentre il PP rimarrebbe fermo al 4-5%. E Vox con il 5-6% siederebbe per la prima volta nel Parlamento di Barcellona col compito di tenere a bada i separatisti ringalluzziti dalle improbabili aperture del premier Sánchez.

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