Il "centro" dentro il Pd resterebbe un fantasma

Il tema decisivo per le prossime elezioni riguarda proprio il centro fuori dal Pd e non dentro

Il "centro" dentro il Pd resterebbe un fantasma
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In politica, specie nel centro-sinistra, non ci sono mai stati tanti «centri», reali o sulla carta, come ora. Centri e centrini più o meno centrali, talmente tanti da aumentare il caos e far perdere la testa. Nel Transatlantico di Montecitorio Dario Franceschini, da sempre anima dell'area moderata del Pd, parla dei due convegni che animeranno il dibattito del Pd in questa settimana: quello organizzato da Graziano Delrio per ridare ossigeno ai cattolici del partito con Prodi, Castagnetti e la «new entry» sulla scena, l'ex-direttore dell'agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini; e quello dei riformisti di «Libertà Eguale» con Morando, Ceccanti, Tonini e l'ex-premier Paolo Gentiloni. Spiega Franceschini: «In questi appuntamenti non si parla di un centro al di fuori del Pd, perchè nessuno di questi se ne vuole andare dal partito. La questione del «centro esterno», invece, è più articolata». Solo che il tema decisivo per le prossime elezioni riguarda proprio il centro fuori dal Pd e non dentro. E la ragione è semplice: il campo largo ha bisogno di una gamba moderata che riequilibri una coalizione troppo sbilanciata a sinistra e condizionata dai 5stelle; una funzione del genere, però, può essere svolta solo da un soggetto dai contorni chiari, autonomo, con un'identità ben definita. Cioè un attore politico che deve essere percepito dagli elettori, mentre un riequilibrio affidato al solito gioco correntizio tutto interno al Pd servirebbe a poco, non aumenterebbe l'offerta politica del campo largo e non andrebbe incontro ai sentimenti di quegli elettori moderati che potrebbero risultare decisivi nelle urne. Sarà una «questione articolata» come dice Franceschini ma di certo non di poco conto e probabilmente decisiva quando si tornerà a votare. Pochi si sono accorti, infatti, che dopo la liberazione di Cecilia Sala il centro-destra in un sondaggio di Alessandra Ghisleri ha superato come coalizione la soglia del 50% (esattamente il 50,3%). Probabilmente sul dato ha pesato la spinta emozionale ma è evidente che l'opposizione in questi mesi ha perso pezzi di consenso ragion per cui per avere un minimo di chance il campo largo deve cambiare formazione e deve raccogliere tutto ciò che c'è alla sinistra di Forza Italia. E non è detto che basti. Di questo elemento prima che politico aritmetico c'è una consapevolezza generale che però non coinvolge i diretti interessati. La prima ad averlo capito è Giorgia Meloni che, seguendo una logica stringente sul piano politico, ha messo nel mirino Matteo Renzi che ha virato verso l'alleanza di centro-sinistra, mentre blandisce Carlo Calenda che continua a coltivare per inerzia sempre l'ipotesi terzopolista.

Chi, invece, non affronta il problema continuando a rimirare il proprio ombelico sono proprio i cosidetti moderati o riformisti del Pd. Cioè i primi che dovrebbero essere interessati ad avviare e assecondare il processo della nascita di una gamba moderata alleata ma autonoma dal Pd. Anche perché il centro-sinistra, basta fare due conti, non ha mai vinto senza un soggetto simile in coalizione. Le volte che è riuscito ad imporsi sul centro-destra (1996 e 2006), c'era un partito dall'identità moderata ben definita, cioè la Margherita. Addirittura negli anni che vanno dal 2013 al 2018 per tenere in piedi i governi di Letta, Renzi e Gentiloni il Pd arrivò a creare un soggetto moderato organizzando due scissioni consecutive dentro Forza Italia. Questo per dire che il Pd, al netto ella retorica, non ha mai vinto un'elezione politica e non ha mai governato senza un soggetto moderato alla sua destra. Per cui le sorti del campo largo non sono tanto affidate alla fisionomia del Pd (la Schlein ha fatto il suo riprendendosi un bel pezzo di elettorato dai 5stelle). Semmai la partita decisiva riguarda la ricomposizione della parte moderata della coalizione divisa non tanto dalla politica quanto dai rancori personali. Basta pensare alle dinamiche dei rapporti tra Renzi, Calenda e Gentiloni.

È un bagaglio della sinistra, moderata o no, quello delle rotture viscerali al contrario di ciò che avviene sull'altro versante: Umberto Bossi fece cadere il primo governo Berlusconi, ma il Cav non ci pensò due volte alla bisogna a far pace con lui. Anche questa è politica.

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