Per vincere il processo ai vertici dell'Eni, accusati ingiustamente di corruzione internazionale, i pubblici ministeri milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro tennero nascosti ai giudici le prove a discarico degli imputati. Per questo ieri la Procura di Brescia, al termine di un processo lungo e tormentato, ha chiesto la condanna di entrambi i pm a otto mesi di carcere per rifiuto di atti d'ufficio. Anche se la pena non è alta, i pm bresciani hanno chiesto per i due colleghi il rifiuto della sospensione condizionale della pena: De Pasquale e Spadaro, secondo l'accusa, potrebbero tornare a commettere reati dello stesso tipo, perché «esercitano ancora le loro funzioni in assenza di critica del proprio operato».
La requisitoria della Procura di Brescia mette sotto accusa per la prima volta un rito ambrosiano della giustizia - ma non solo ambrosiano - che ha come obiettivo del processo la condanna a tutti i costi. Nell'aula bresciana sono stati ricostruiti nei dettagli i passaggi di quello che era uno dei processi-simbolo della Procura milanese: l'accusa a Claudio Descalzi, tutt'ora amministratore delegato dell'Eni, al suo predecessore Paolo Scaroni e ai loro collaboratori di avere comprato con una tangente da un miliardo di euro la concessione del giacimento Opl 245, al largo delle coste nigeriane. Già un'altra inchiesta quasi identica per le presunte corruzioni in Algeria era finita in nulla. Per questo sul processo a Descalzi & C. per le concessioni nigeriane la Procura milanese si giocava buona parte della sua credibilità. E soprattutto se la giocava Fabio De Pasquale, il pm che nel suo curriculum poteva vantare la prima condanna di Bettino Craxi e l'unica condanna di Silvio Berlusconi, e che nella caccia al lato oscuro degli affari Eni aveva investito anni di inchieste e grandi risorse finanziarie.
Ma per arrivare alla sentenza di condanna di Eni, De Pasquale e Spadaro si erano basati sulla testimonianza di un calunniatore, di un mestatore inaffidabile: Vincenzo Armanna, già avvocato del gruppo petrolifero di Stato, allontanato dall'azienda per i suoi traffici e animato da un incontenibile sentimento di rivalsa. Nelle loro mani, De Pasquale e Spadaro avevano i video e le chat in cui il gioco sporco di Armanna emergeva in tutta la sua chiarezza: «vedrete la valanga di merda che io faccio arrivare in questo momento», diceva. Quel materiale non venne mai depositato agli atti del processo Eni. Neppure vennero depositate le prove che Armanna aveva versato 50mila euro ad altri due testimoni d'accusa. E nemmeno le perizie che dimostravano come una presunta chat tra Armanna e Descalzi fosse un falso fabbricato ad arte dall'avvocato.
Alla fine, il 17 marzo 2021, tutti gli imputati vennero ugualmente assolti «perchè il fatto non sussiste». Ma quando è stato interrogato in aula nel processo a Brescia il giudice che pronunciò la sentenza di assoluzione, Marco Tremolada, è stato esplicito: se avesse visto quel materiale, assolvere i vertici Eni «sarebbe stato più facile e si sarebbero aggiunte altre decisioni», come l'incriminazione di Armanna per calunnia.
Non fu, quella dei due pm, una dimenticanza inconsapevole. Agli atti c'è la testimonianza di un altro pm milanese, Paolo Storari, che racconta di avere chiesto ripetutamente che i documenti venissero depositati. Niente da fare, il processo andava vinto.
Ora Spadaro è alla Procura europea, De Pasquale è ancora in servizio a Milano: ha la stanza davanti a quella del capo Marcello Viola e sulla sua porta c'è scritto ancora «procuratore aggiunto», anche se il
Consiglio superiore della magistratura non gli ha rinnovato la carica. Ma continua a fare il pm, in attesa della sentenza definitiva: anche se così - dicono ieri in aula i suoi colleghi bresciani - «può reiterare il reato».
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