Quel ricordo punge ancora come uno spillo: «Era la sera del 20 luglio 2013, mi avevano arrestato tre giorni prima ed ero sfinita dal viaggio interminabile iniziato a Cagliari alle quattro del mattino». Jonella Ligresti prende fiato, mentre la sua faccia si rannuvola: «Ricordo le Vallette di Torino con angoscia, ma il momento dell'ingresso in cella, in quella cella, come un supplizio. Sulla porta ho visto quella stanzetta, due metri per quattro, un letto a castello e nemmeno una sedia per mangiare, e mi è preso il panico: mi sentivo soffocare, una crisi di claustrofobia, non capivo più niente, urlavo, mi sono aggrappata al muro. Poi è arrivato un prete e mi ha detto: Devi entrare perché ti hanno arrestato. Ho aperto la mano, ho lasciato la presa e ho fatto quei due passi. In quell'ambiente strettissimo ho trascorso due mesi durissimi, sempre in compagnia di una donna anziana e semicieca accusata di concorso in omicidio».
Ligresti è seduta nel salotto della sua casa milanese, dalle parti dell'ippodromo di San Siro e degli amati cavalli; ai suoi piedi una muta di quattro cani in adorazione. Lei si asciuga le lacrime che non sono uscite e riprende, quasi di corsa: «La domenica sono andata a messa e il sacerdote mi ha detto: "Tu devi rinnegare il tuo cognome". Ma io non dovevo rinnegare niente, anzi io sono una figlia innamorata di suo papà che era un genio. Citylife deve molto a mio padre; me lo ricordo a discutere con Libeskind: erano chini sulle carte del progetto e a un certo punto papà ha tirato fuori la sua matita rossa e blu, la stessa che gli ho infilato nel taschino prima di chiudere la bara, e ha iniziato furiosamente a fare correzioni. L'archistar ascoltava, poi in italiano ha detto: "Hai ragione Salvatore". Piazza Gae Aulenti dovrebbe chiamarsi piazza Salvatore Ligresti».
Adesso che tutto è finito è arrivato finalmente il momento di raccontare: il 12 maggio, il gip su richiesta della procura di Milano ha archiviato tutte le accuse. Il falso in bilancio e l'aggiotaggio informativo. L'hanno prosciolta, come avevano assolto, in un altro procedimento, il fratello Paolo e, dopo la revisione, la sorella Giulia.
Ma in mezzo ci sono otto anni di inchieste e dibattimenti, quattro mesi in carcere - Cagliari, Torino e Milano - altri otto ai domiciliari, una condanna poi annullata in primo grado a Torino a 5 anni e 8 mesi, la perdita della compagnia assicurativa di famiglia, la Fonsai, e di tutte le altre cariche, decine di articoli in cui era dipinta come una manipolatrice del mercato senza scrupoli.
Adesso guarda l'Ipad: è un messaggio di posta elettronica dove, in poche righe, il giudice di Milano, dove il fascicolo era arrivato nel marzo 2019 per competenza, mette la parola fine a tutta questa storia, senza nemmeno bisogno di arrivare al dibattimento. «Ero la presidente di Fonsai non per chissà quali competenze, ma solo perché ero la figlia dell'azionista più importante. Però il lavoro mi piaceva e andava bene. C'era stata un'ispezione dell'Isvap che aveva raccomandato prudenza su una singola posta di bilancio, chiedendo di rinforzare le riserve, ma nulla di più». E invece a luglio 2013 la magistratura di Torino parte in quinta: «Papà finisce ai domiciliari, io e Giulia in cella, mio fratello evita le manette solo perché cittadino svizzero. Non avevo fatto niente, non capivo perché ero finita dentro, ma dopo i primi giorni di disorientamento mi sono fatta coraggio: l'importante in prigione è darsi un ritmo, anche se sei in condizione drammatiche. Scrivevo le lettere per le Rom che mandavano notizie ai loro cari e nel caldo insopportabile dell'estate, seduta o sdraiata sul letto 22 ore al giorno, avevo allestito il mio frigo personale nel bidet».
Jonella interrompe la conversazione, si accende una sigaretta e parla con la figlia Ludovica che ha appena creato un brand di moda. «C'è stato un giorno in cui mi sono arresa: era ottobre, ero a San Vittore, con una coinquilina napoletana, pure dentro per omicidio, che cucinava meravigliosamente e aveva recuperato un sontuoso set di pentole, lasciate da Patrizia Reggiani che aveva appena abbandonato la cella di fronte. L'avvocato Lucio Lucia, che mi veniva a trovare quasi quotidianamente con gli altri difensori Marco Salomone e Salvatore Scuro, mi chiama: «Ce l'abbiamo fatta. Vai a casa». Ho aspettato tutto il giorno, ma non era vero. Mi avevano illuso. La mattina dopo è venuta a trovarmi mia figlia Ludovica: «Mamma, Paolino piange tutte le notti, vuole la sua mamma, mamma basta, patteggia, patteggia ed esci».
Paolino, che oggi fa ingegneria come il nonno, aveva solo 11 anni: «Ho dato l'ok al patteggiamento e ho firmato una carta in cui ammettevo non so che cosa. La mia fortuna è stata che il giudice ha ritenuto la pena non congrua e il patteggiamento è saltato».
Ora è tutto passato, ma le ombre restano e l'impero di famiglia è sparito. «Ho aperto un ristorante in Sardegna - spiega mentre Lulù, la maltese, abbaia festosa - e ho ripreso a cavalcare, la mia grande passione. Ma non posso dimenticare che papà è morto in solitudine, in questa casa, mentre il gruppo veniva spogliato dei suoi beni e rimaneva un guscio vuoto, con addosso una condanna pesantissima che gli è stata tolta solo ora che non c'è più.
Papà negli ultimi tempi era silenzioso e aveva lo sguardo disperato di chi vede distruggere tutto quello che ha costruito. Ma papà è ancora con me: la sua firma è tatuata sul mio polso». E questa volta una lacrima, una sola, scende.
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