«Da vent'anni sostengo la tesi che è diventata sentenza dello Stato. Ed è una sentenza di importanza capitale con argomentazioni difficilmente aggirabili».
Claudio Martelli era ministro della Giustizia all'epoca della cosiddetta «trattativa», prima di essere sostituito da Giovanni Conso. Da poco è uscito il suo ultimo libro «Vita e persecuzione di Giovanni Falcone».
Nelle motivazioni i giudici parlano di un'iniziativa «improvvida» da parte dei Ros. Se lo aspettava?
«Improvvido è stato anche il processo. Che quella dei carabinieri del Ros non fosse reato lo dico da quando ci sono state le prime iniziative giudiziarie contro di loro. Del resto già nel processo di Firenze, Mori ammise di aver trattato con Ciancimino. Disse di averlo fatto per acquisire elementi utili alle indagini con lo scopo di dividere Cosa Nostra».
Secondo i giudici il coinvolgimento nell'inchiesta dell'ex presidente Scalfaro e dell'ex ministro Conso rispetto a un presunto cedimento alla minaccia mafiosa fu «ingeneroso e fuorviante, un errore di sintassi giuridica».
«E hanno ragione i giudici, non era materia di un'indagine penale il comportamento dei politici, come Scalfaro, che favorirono le revoche del 41 bis nel 1993. L'intento lo ha spiegato lo stesso Conso, era quello di fermare le stragi. Volevano dare un segnale all'ala moderata di Cosa nostra. Non fu un reato, ma un errore politico sì. Perché non fermò le stragi che anzi vennero esportate in continente».
Lei ha definito Scalfaro il regista "politico" della «trattativa». Quale fu il ruolo dell'ex presidente?
«Ne è stato il regista dal punto di vista politico. Le revoche furono ispirate da Scalfaro e messe in atto da Conso. Scalfaro ha orientato le scelte di attenuazione del 41 bis a mafiosi non particolarmente pericolosi. Ma la conseguenza di quell'atteggiamento non combattivo - a differenza di quello che io avevo perseguito - è stata che le stragi ricominciarono. Lo Stato ha dato l'idea di essere debole. Cosa importava a Riina se revocavano il 41 bis a mafiosi di terza categoria? Lui era interessato all'abolizione totale».
I giudici però parlano anche di sconcertanti omissioni in riferimento all'operato dei carabinieri del Ros. Anche lei ne ha sottolineato le anomalie. Vale la ragion di Stato?
«All'epoca a me apparve un'iniziativa improvvida e lo dissi. Ho parlato più volte di anomalie, di abuso di potere, come più volte ho sottolineato che fu un errore non aver informato i magistrati di quello che stavano facendo e i loro superiori della Dia. Tra l'altro avevamo appena creato la Dia che unificava i servizi intelligence nel contrasto alle mafie, perché non hanno informato i vertici? Parliamo di anomalie, non di reati, è diverso».
Lei si oppose quando chiesero di restituire addirittura il passaporto a Ciancimino.
«Chiamai il procuratore generale di Palermo, dissi quello Falcone aveva sempre detto di Ciancimino, cioè che era il più politico dei mafiosi e il più mafioso dei politici e per questo era pericoloso lasciarlo espatriare. I carabinieri del Ros hanno preso iniziative discutibili e da giudicarsi con severità, ma non sono reati e loro non meritavano un processo penale».
Si chiude davvero il cerchio con questa sentenza?
«Si andrà in Cassazione, anche se per me questa dovrebbe essere la sentenza definitiva. Quello che invece bisogna continuare è una ricerca storica sulle responsabilità penali ma politiche che sono emerse in modo evidente.
Sia da parte del governo che del presidente della repubblica. Perché non è che Scalfaro abbia mai detto direttamente che bisognava trattare, ma Conso ha dichiarato che si volle dare un segnale. E Conso da chi era stato messo al ministero della Giustizia?
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