In questi anni ne abbiamo sentite di tutti i colori riguardo al percorso di rientro per il debito pubblico. Basta ricordare l'approccio «morale«, propugnato da Angela Merkel: il debito è una colpa, e dunque va punito chi lo genera. Tutte amenità che hanno creato un attacco speculativo contro il debito greco e italiano e, come conseguenza, un secondo episodio recessivo nel 2011-2012, seguito a quello del 2009. Il dibattito in corso, purtroppo, rivela che non si è appreso nulla né dalla lezione di quei giorni, né dalla letteratura economica. La ricetta per la riduzione del debito alla base sia del vecchio che del nuovo patto è sempre la stessa: tasse più alte e riduzione della spesa.
Il piano di rientro richiederebbe un approccio più innovativo. Certo, la riforma fiscale è fondamentale per aumentare il gettito in modo perequativo, così come è giusto ridurre la spesa, laddove possibile. La riduzione graduale del debito proposta nel patto di stabilità, non è credibile. In primo luogo perché richiede tempo: 10-20 anni almeno. In secondo luogo perché le sfide di fronte alle quali la nostra società si dovrà misurare sono molto complesse e non comporteranno una riduzione della spesa pubblica, ma una sua ricomposizione. La cura del territorio (vedi l'alluvione in Emilia-Romagna e Toscana) necessita di risorse, così come la sanità e la difesa (come richiestoci dagli alleati). Se a ciò aggiungiamo anche un rialzo permanente dei tassi di interesse, ci rendiamo conto che una strategia basata solo sull'assegnazione di obiettivi al deficit, è completamente irrealistica. Ciò funzionava in un mondo con meno tensioni geopolitiche, finanziarie e ambientali, con una crescita del Pil più alta e stabile.
Gli studi più accreditati hanno dimostrato che il successo nella riduzione del debito passa attraverso tre canali: crescita; tassi di interesse bassi; inflazione a sorpresa. Una forte contrazione del deficit non aiuterà la crescita e l'inflazione a sorpresa non è la soluzione. Ci vuole altro. L'approccio sin qui seguito ha reso l'Europa marginale nel panorama valutario globale: nel 2002 il 25% delle riserve mondiali era denominato in Euro, oggi il 20 per cento.
L'Euro è diventato una valuta regionale che ha perso (almeno sinora) la sfida di mitigare il ruolo del dollaro come moneta di riserva. Ciò perché, a differenza degli Usa, l'Ue non esporta debito che detenuto come riserva di valore a fronte, ad esempio, di prestiti internazionali denominati in Euro, per esigenze finanziarie e/o di interscambio commerciale. Il nuovo patto di stabilità dovrebbe essere ripensato anche in funzione della costruzione di un debito europeo, favorendo una ristrutturazione del debito «vecchio»: è l'occasione per un salto di qualità, piuttosto che ripresentare regole troppo restrittive e poco efficaci. Ragionamenti di questo tipo, però, non sembrano essere all'ordine del giorno. Certo, l'Italia non ha colto tutte le occasioni favorevoli, ma è anche vero che l'inerzia della Commissione Ue nell'affrontare il problema del debito in modo diverso, può nascondere una convenienza da parte di Germania e Francia a che l'Italia sia indebolita da una forte restrizione fiscale.
L'Europa ancora una volta dimostra di non essere in grado di pensare in modo veramente unitario. Il patto di stabilità sinora non ha favorito la convergenza, come molti studi dimostrano. Perseverare nella stessa direzione non favorirà né il rientro dal debito, né la stabilità finanziaria dell'Europa.
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