Condannato De Pasquale. "Ha nascosto le prove"

Otto mesi all'ex aggiunto e a Spadaro per avere rifiutato le carte che dimostravano l'innocenza di Eni. La difesa: lesa l'autonomia del pm

Condannato De Pasquale. "Ha nascosto le prove"
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Dopo Piercamillo Davigo, tocca a Fabio De Pasquale. I veleni dell'inchiesta Eni fanno ieri a Brescia un'altra vittima eccellente. Il «Dottor Sottile» del pool Mani Pulite era stato condannato a quindici mesi per rivelazione di atti segreti. Ieri lo stesso giudice che ha condannato Davigo condanna anche De Pasquale, fino a maggio procuratore aggiunto della Repubblica a Milano, e tutt'ora in servizio come pm nel capoluogo lombardo. A De Pasquale e al suo collega Sergio Spadaro, che ha condotto insieme a lui il processo ai vertici dell'Eni, vengono inflitti otto mesi di carcere per rifiuto di atti d'ufficio: tennero nascoste carte che dimostravano l'innocenza degli imputati. Erano le prove nette che il principale teste d'accusa al servizio della Procura milanese era un calunniatore interessato, mosso da ansia di vendetta verso i vertici del gruppo di Stato che avevano emarginato lui e la sua cricca.

La contro-inchiesta a Brescia sulla gestione del caso Eni è stato un drammone giudiziario, un processo al processo che ha visto per la prima volta, dopo decenni di buon vicinato, la Procura di Brescia prendere fino in fondo il suo ruolo di controllore dei reati dei colleghi milanesi. Della faida scoppiata nel palazzo di giustizia milanese, a Brescia sono stati processati entrambi i fronti: Davigo che, dopo averli ricevuti dal pm Paolo Storari, divulgò a Roma i verbali sulla «loggia Ungheria», acquisiti nell'inchiesta Eni, di cui Storari temeva l'insabbiamento; e poi De Pasquale, che quei verbali voleva invece chiuderli in un cassetto per non compromettere il processo a Claudio Descalzi, numero Uno di Eni, e al suo predecessore Paolo Scaroni. Condannato Davigo, ora condannato De Pasquale, entrambi i fronti escono malconci dal processo. Ancora più malconcia ne esce l'immagine della Procura milanese, un tempo simbolo della lotta alla corruzione e divenuta terreno di scontri interni crudamente raccontati dalle chat.

Unica nota positiva per De Pasquale e Spadaro, la sospensione condizionale della pena, che la Procura aveva chiesto di negare vista la loro «mancanza di rivisitazione critica» del loro operato e il rischio che commettessero altri reati analoghi. Ma la condanna c'è, ed è ben più pesante dei pochi mesi inflitti sulla carta: è la condanna a un modo di condurre le inchieste e i processi verso il quale anche il Consiglio superiore della magistratura ha avuto parole pesanti, quando ha degradato De Pasquale a semplice pm accusandolo di mancare di «imparzialità e equilibrio» e di avere «reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo rispetto alle parti nonché senza senso della misura e senza moderazione». Spadaro si è autoesiliato alla Procura europea, De Pasquale è ancora in servizio a Milano ma è il primo a sapere che la sua autorevolezza di inquirente non esce incolume dalla condanna di ieri.

Per il suo difensore, Massimo Dinoia, la condanna è un «precedente pericoloso, perché mette in discussione l'autonomia delle scelte processuali di un pubblico ministero». Il problema è che della loro «autonomia» De Pasquale e Spadaro sono condannati per avere fatto un cattivo uso. Prima tenendo per sé la registrazione dell'incontro in cui il loro supertestimone Vincenzo Armanna sfogava tutto il suo rancore verso il gruppo Eni e annunciava la sua vendetta a colpi di testimonianze. Poi evitando di depositare i whatsapp in cui si scopriva che Armanna aveva versato 50mila euro a due testi africani per confermare le sue accuse.

Infine non consegnando al tribunale il rapporto di Vodafone da cui si emergeva che una presunta chat tra Armanna e Descalzi era un falso clamoroso. «Se le avessimo viste, fare la sentenza sarebbe stato più facile», ha detto in aula a Brescia il giudice del caso Eni, Marco Tremolada. Da quel momento la condanna di De Pasquale era già scritta.

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