La Consulta sblocca il caso Regeni

Accolto il ricorso del Gup: i quattro 007 egiziani potranno essere processati in contumacia

La Consulta sblocca il caso Regeni
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«La impossibilità di processare in Italia i quattro imputati, per volontà dello Stato estero di loro appartenenza, sicuramente contrasta con l'art. 111 della nostra Costituzione, perché la giurisdizione del giudice italiano non può attuarsi mediante un giusto processo». È questa la tesi che ieri la Corte Costituzionale accoglie riaprendo bruscamente il «caso Regeni». Il processo italiano ai quattro esponenti dei servizi segreti egiziani sembrava definitivamente impantanato di fronte all'ostruzionismo del loro governo che si rifiutava di dare corso alle notifiche della magistratura italiana: e senza notifiche, dice il codice, il processo non si fa. Così il tribunale di Roma aveva bloccato tutto, con una decisione inevitabile davanti al codice. Ma il giudice Roberto Ranazzi era pienamente consapevole dell'ingiustizia scaturita dalla norma. Così ha fatto sua e trasmesso alla Corte Costituzionale la questione di illegittimità di quell'articolo del codice sollevata dalla Procura di Roma. Ieri la Corte accoglie il ricorso. La norma è cambiata, il processo agli uomini accusati di avere rapito, sequestrato e ucciso Giulio Regeni può ripartire anche subito.

Nella sua ordinanza, accolta ieri dalla Consulta, il giudice Ranazzi aveva avuto parole severe verso il comportamento del governo egiziano. A rendere impossibile le notifiche, aveva ricostruito, è stata non la presunta irreperibilità dei quattro militari ma la scelta precisa del governo di proteggere i suoi uomini: «Il processo penale non può svolgersi per la dichiarata volontà dello Stato estero di non prestare assistenza giudiziaria, di non cooperare con l'Autorità giudiziaria italiana». A rendere tutto più inaccettabile, secondo Ranazzi, la gravità delle accuse al centro dell'indagine sulla morte nel 2016 al Cairo del ricercatore italiano. È certo che Regeni fu sequestrato dalla polizia, è documentata dall'autopsia la brutalità delle torture cui fu sottoposto. Quella norma del codice, giusta in genere ma assurda nella circostanza, impediva al processo di andare avanti: «La declaratoria di incostituzionalità - scrisse il giudice - consentirebbe allo Stato italiano di dare piena attuazione agli obblighi internazionali assunti con la ratifica della Convenzione contro la tortura». Proprio quest'ultimo argomento sembra avere influito in maniera decisiva nella decisione della Corte Costituzionale.

Il processo riparte, e torna - probabilmente con una nuova richiesta di rinvio a giudizio per i quattro imputati - a ingombrare lo scenario dei rapporti diplomatici tra Italia ed Egitto: rapporti intensi, necessari, che da entrambe le parti avevano vissuto quasi con sollievo la sparizione dall'agenda del caso Regeni.

Dicono i genitori del ricercatore: «Avevamo ragione noi: ripugnava al senso comune di giustizia che il processo per il sequestro le torture e l'uccisione di Giulio non potesse essere celebrato a causa dell'ostruzionismo della dittatura di al-Sisi».

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