Ci sono voluti anni di ricorsi e un intervento della Corte Costituzionale perché venisse sancito, una volta per tutti, un principio che sembrava ovvio. Per rovinare per via giudiziaria la vita di una persona non serve mandarla in galera: basta indagarla, perquisirla, esporla al pubblico disprezzo. Quando questo avviene senza motivo, il malcapitato ha diritto a essere risarcito - attraverso lo Stato - dal magistrato che lo ha devastato.
È l'ultima sentenza della Corte Costituzionale sotto la presidenza di Giuliano Amato. L'ex presidente del Consiglio lascia ieri anche la guida della Consulta. Ed è significativo che la sua ultima firma Amato la metta su una sentenza destinata a risultare indigesta alla magistratura organizzata. Basti pensare che quando nel 2015 il governo Renzi approvò una norma che andava nella stessa direzione, le correnti delle toghe insorsero, protestando per la ferita inferta alla libertà della categoria. La legge non era retroattiva, per cui decine e decine di vittime della malagiustizia continuavano a essere escluse dal risarcimento. Politici, imprenditori, gente comune finita in pasto alle prime pagine per accuse infondate continuavano a vedersi rifiutare il risarcimento. Solo chi è finito agli arresti può chiedere i danni allo Stato, dicevano le sentenze. Tutti gli altri, quelli distrutti anche senza vedere la cella, si arrangiassero.
Ora la sentenza della Consulta, stesa dal giudice Emanuela Navarretta, rimette un po' le cose a posto. Ed è merito, va sottolineato, di un magistrato. È un giudice in servizio nel palazzo di giustizia di Reggio Calabria finito anni fa nel mirino dei suoi colleghi di Catanzaro che lo accusano di un reato infamante: concorso esterno in associazione mafiosa. Non lo mandano in carcere ma lo perquisiscono, e ovviamente la notizia arriva ai giornali. Il giorno dopo, il dottor P.A.B. si ritrova indicato al mondo come un complice della ndrangheta.
Quando il fascicolo viene trasmesso per competenza alla Procura di Roma, ai pm della Capitale basta poco per capire che contro quel giudice non c'è nulla di concreto, e archiviano il fascicolo. Da quel momento P.A.B. inizia la sua battaglia per chiedere il risarcimento dei danni ai colleghi che lo hanno messo nel tritacarne. Per due volte a Salerno si vede dare torto: non ti hanno neanche messo in carcere, cosa vuoi?
Il magistrato deve arrivare alla Cassazione perché l'assurdità della norma che salva i pm dalla perquisizione facile salti finalmente agli occhi. La terza sezione civile della Cassazione solleva la questione di incostituzionalità che viene accolta ieri, aprendo la strada al risarcimento a P.A.B. e a tanti altri come lui. A colpire sono anche le motivazioni della sentenza: i giudici ricordano che tra i «diritti inviolabili» della persona non c'è solo la libertà. E «se è vero che la libertà personale può ritenersi esposta a pregiudizi particolarmente gravi per effetto dell'illecito del magistrato», non c'è nessun motivo che giustifichi «l'esclusione dalla tutela degli altri diritti della persona, parimenti suscettibili di subire danni in conseguenza di una acclarata illiceità del magistrato». Sono i danni non economici ma altrettanto devastanti alla reputazione, alla carriera, a volte anche alla salute fisica e mentale che la gogna mediatico-giudiziaria porta sovente con sé.
Per convincere la Corte costituzionale a respingere la questione era scesa in campo anche l'Avvocatura dello Stato - su indicazione del governo - che aveva sostenuto che un allargamento dei
risarcimenti avrebbe messo a rischio la «indipendenza e la autonomia dei magistrati». Ma anche questa eccezione viene respinta dalla Consulta all'insegna del «bilanciamento dei diritti». Diritti dei pm, diritti dei cittadini.
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