Il globetrotter Giuseppe Conte, dopo essere stato per lungo tempo un fantasma in politica estera, in questi giorni continua a ritmo serrato il suo tour internazionale con lo scopo di affrontare la crisi libica e per cercare di evitare all'Italia un ruolo marginale in un'area strategica per il nostro Paese. Ci riuscirà? Non sarà facile. L'essersi svegliati così in ritardo per affrontare l'emergenza non lascia grandi margini. E poi il premier perde credibilità a ogni passo con i suoi avanti march e «dietrofront», guadagnandosi il soprannome di «avvocato tentenna».
La politica degli annunci, che in Italia può incantare ancora qualcuno, fuori dai nostri confini non ha alcun peso. Ricucire e rimettere insieme relazioni trascurate, quando ormai siamo giunti al redde rationem, sarà forse utile nel medio termine, ma a pochi giorni dalla conferenza di Berlino sulla Libia (guarda caso, sarà Angela Merkel la protagonista) difficilmente produrrà risultati utili per il nostro Paese. È sempre possibile un colpo di scena e mister Giuseppi ce la mette tutta, come ha fatto ieri al Cairo quando ha annunciato, dopo l'incontro con il presidente egiziano al-Sisi, di essere disponibile a inviare soldati italiani in Libia, nell'ambito di un'operazione di peace monitoring, cioè di monitoraggio del cessate il fuoco. Militari italiani in quell'inferno? Conte mette le mani avanti: «L'unica soluzione sostenibile è quella politica, ogni tentazione di imporre l'opzione militare è destinata al fallimento e comunque inaccettabile. Ci devono essere le condizioni di sicurezza», ha detto, senza specificare chi mai potrebbe garantire quella sicurezza, visto che il generale Haftar non ha voluto firmare a Mosca l'accordo di tregua. Nessuna sorpresa, il leader di Bengasi deve consultarsi con i suoi padrini, cioè Arabia Saudita, Egitto ed Emirati arabi. Ma Conte non si arrende: «L'importante è che ci sia un cessate il fuoco sostanziale», ha sottolineato. Certo, a garantirlo sarà il Cremlino, non altri. «Anche se Haftar non ha firmato, il cessate il fuoco reggerà», ha intimato il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. E l'uomo forte della Cirenaica si piegherà. Che accadrà dopo? Molti si aspettano che dalla conferenza di Berlino qualcuno tiri fuori il coniglio dal cilindro. Conte ripeterà che l'Italia è pronta a mandare i suoi soldati «se ci saranno le premesse come ha detto ieri e riusciremo a dare un indirizzo politico alla crisi libica. Ma non manderemo uno solo dei nostri ragazzi se non in condizioni di sicurezza e in un contesto politico molto chiaro».
Il premier italiano, inoltre, ha bisogno del voto del Parlamento. Non a caso ieri sera ha voluto incontrare i capigruppo di tutte le forze politiche per trovare una linea univoca su crisi libica e Irak. Mossa encomiabile ma che mette in luce una grande debolezza. D'altronde, Conte non riesce a tenere unita neppure la sua maggioranza, figuriamoci tutti i partiti o l'intero Paese L'opposizione però non fa sconti e ha continuato a martellare il governo. «Se Conte e Di Maio avessero fatto bene il loro lavoro la conferenza si sarebbe tenuta a Roma e non a Berlino», ha dichiarato la parlamentare di Forza Italia Deborah Bergamini, che aveva invitato il suo partito a disertare l'incontro con Conte. E Annamaria Bernini, presidente dei senatori Fi, ha incalzato: «Prefigurare l'invio di soldati in Libia, come ha fatto Conte, è stata una mossa prematura e inutile: la politica estera non si fa con le improvvisazioni». La Lega ha lanciato un segnale al premier non facendo partecipare i capigruppo di Camera e Senato ma due parlamentari, mentre anche Fratelli d'Italia ha espresso le sue perplessità con il capogruppo dei deputati Francesco Lollobrigida. C'è infatti la consapevolezza che il nostro ruolo ininfluente venga chiassosamente allo scoperto a Berlino e che l'opposizione, aiutando il premier, veda ricadere anche su di sé il fallimento della politica estera italiana e non sui veri responsabili, cioè la maggioranza rossogialla.
Così, Conte in serata è costretto al dietrofront, dicendo che è contrario all'intervento militare ma a favore dell'invio di «capitale umano», senza specificare che cosa significhi. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, invece, ha preferito glissare su una possibile missione in Libia. Insomma, nessun risultato. Giusto per continuare a non contare nulla nello scacchiere internazionale.
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