Conte fugge, il Gran giurì finisce in farsa

Il leader 5s fa sciogliere la commissione sulla disputa con la Meloni sul Mes. Mulè: "Grave sfregio"

Conte fugge, il Gran giurì finisce in farsa
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Gran teatrino del Giurì, cala il sipario sulla commissione speciale chiamata da Conte a stabilire se la Meloni ha veramente pronunciato «menzogne denigratorie» sulla ratifica del Mes da parte governo Conte 2. Dopo un inizio da romanzo cavalleresco sull'onore tradito del leader 5s, tutto invece finisce in farsa, come nelle commedie all'italiana, per volontà dello stesso leader grillino. Due mesi di audizioni, montagne di documenti analizzati e discussioni di ore per concordare ogni singola parola della relazione che avrebbe portato al verdetto, e poi niente. Il risultato finale non piaceva a Conte, e la partita si ferma all'89esimo minuto, con il «ritiro dell'istanza» da parte del richiedente, appunto Conte, e il presidente della Camera che deve prenderne atto e scioglierla «senza entrare nel merito» delle motivazioni espresse da Conte. Un finale improvviso ma non imprevedibile visto il personaggio.

Ma cos'è successo negli ultimi giorni? Il colpo di teatro del leader Cinque Stelle è stato preceduto dalle dimissioni dei deputati del Pd e di Avs, Stefano Vaccari e Filiberto Zaratti, che hanno accusato di «non terzietà» la commissione presieduta dall'azzurro Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera, pur avendone condiviso il lavoro fino a quel momento, paragrafo dopo paragrafo. «Delle 17 pagine di relazione» racconta Mulè, «da pagina 1 a 15 è tutto deliberato. Non c'è stato un punto non risolto e vi assicuro che di passaggi dove potevano esserci maggioranze diverse ce n'erano parecchi». Invece in commissione non c'è stata alcuna «spaccatura o una divisione», ma un «unanime verdetto» della commissione che per regolamento della Camera è un organo terzo («Il mio ruolo» alla guida del Giurì d'onore «è stato sempre terzo, imparziale e di arbitro», dice Mulè ringraziando il presidente Fontana per averglielo pubblicamente riconosciuto). Finchè non si è arrivati alla pagina finale, quella che riguardava la tempistica a cui si riferiva la Meloni. Cioè questa: Conte il 19 gennaio 2021 in Senato dice che «il Mes è un tema divisivo», malgrado ciò il giorno da governo arriva un fax all'ambasciatore a Bruxelles in cui gli viene dato mandato di firmare il trattato sulla riforma del Mes. Cosa che avviene il 27 gennaio, cioè il giorno dopo che l'allora premier Giuseppe Conte si era dimesso. Una ricostruzione cronologica che però, secondo i commissari del Pd e dei Verdi, sarebbe una «interpretazione politica» di parte. Per questo, quando la commissione deve riaggionarsi per chiudere il lavoro, i due si dimettono. E a ruota arriva Conte. «È singolare che Conte abbia ricavato la certezza di non andare incontro a un parere imparziale semplicemente leggendo la missiva di Vaccari e Zaratti, ed è singolare che lui, parte in causa, si erga a giudice - commenta Mulè -. Se fossimo in tribunale saremmo di fronte a un palese oltraggio alla corte: in questo caso l'oltraggio è stato compiuto nei confronti delle istituzioni, della Camera dei deputati». L'altra ipotesi è che i due commissari di sinistra abbiano parlato con Conte, gli abbiano raccontato il contenuto della relazione e l'esito a cui sarebbe arrivata (la conferma cioè delle parole della Meloni), convincendolo così a far saltare tutto prima del verdetto. Una versione che significherebbe la violazione dell'obbligo di segretezza che hanno i componenti del Giurì. Da Fdi si sprecano le metafore per Conte, «un perdente di insuccesso», in «fuga per la sconfitta» dice il capogruppo Tommaso Foti: «Ha tanto reclamato il Giurì d'onore per poi chiedere di scioglierlo ad un minuto dalla fine con un solo scopo, tentare di evitare una sonora umiliazione». Conte ribalta la frittata: «La verità è che si voleva forse far vincere facile Meloni. Ma a perdere sarebbero state le istituzioni».

Intanto al Senato la Giurì-mania fa proseliti: il senatore Balboni (Fdi) ne invoca un Giurì che dimostri che non ha mai detto «qui comando io» come sostiene il dem Boccia. Ma La Russa, che è anche avvocato, punta sulla conciliazione.

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