Conte a rapporto dagli Usa. Le strigliate su Cina e 5G

L'emissario di Trump a Palazzo Chigi: "Attenti agli scopi strategici di Pechino in Italia". La contropartita libica

Conte a rapporto dagli Usa. Le strigliate su Cina e 5G

Da una parte c'è il «bastone». E si chiama Cina. Dall'altra una carota che dovremo riconquistarci sul fronte libico. I due temi - fondamentali per Roma e per Washington, ma su cui siamo noi ad aver più da perdere - sono stati al centro dell'«ispezione» romana di Mike Pompeo. Un'«ispezione» iniziata durante i colloqui con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e proseguita nel faccia a faccia con un ministro degli Esteri Luigi Di Maio uomo di punta di quei 5 Stelle da cui dipendono le sorti del capo del governo. In entrambi gli incontri Mike Pompeo è partito dal bastone. Al presidente del Consiglio ha chiesto di «fare attenzione alla privacy dei suoi cittadini» minacciata da un 5G al servizio di Pechino. Al ministro degli Esteri ha ricordato che «il Partito comunista cinese sta cercando di sfruttare la propria presenza in Italia per scopi strategici» e non certo «per fare partenariati sinceri». Sul fronte libico non ha esitato a rivendicare «lo sforzo diplomatico enorme» per «raggiungere un cessate il fuoco». Come dire se l'Italia tornerà in gioco lo dovrà anche a noi.

Ma il tema più scottante è quello della presenza cinese all'interno delle infrastrutture del 5G. Un tema su cui Pompeo non parla solo per conto di un'amministrazione Trump prossima al cruciale giro di boa delle Presidenziali, ma a nome del ben più solido e duraturo complesso militare e industriale americano. Quel «complesso» vede come una serpe in seno la presenza di Huawei all'interno del 5G italiano e pretende garanzie assolute sulle misure adottate per preservare la sicurezza di una rete da cui transiteranno dati e progetti strategici che non devono assolutamente finire in Cina. Non a caso Di Maio sottolinea come il governo abbia varato una «normativa considerata virtuosa dalla stessa Unione Europea» in base alla quale tutti contratti e intese sul G5 sono «sottoposte a scrutinio da parte del gruppo del golden power istituito presso la presidenza del Consiglio».

Ma gli americani sono sinceramente perplessi. Anche perché non sanno spiegarsi la faciloneria con cui Conte e Di Maio si atteggiano a sinceri «atlantisti» dopo aver aperto le porte a Huawei, corteggiato il presidente Xi Jinping, spinto per la firma del Memorandum sulla Via della Seta e paragonato ad un nuovo piano Marshall le inutilizzabili mascherine elargiteci ad inizio pandemia. Proprio per questo vogliono vederci chiaro guardando negli occhi i loro interlocutori. Anche perché dall'attendibilità sulla questione cinese dipende il ritorno in gioco in una Libia dove Conte e Di Maio si sono dimostrati incapaci di contenere Turchia e Russia. Pompeo citando gli «enormi sforzi diplomatici» messi in campo per ottenere il cessate fuoco e il ritorno ai colloqui sotto egida Onu fa capire come la Libia sia alla vigilia di una nuova ripartenza. Una ripartenza che - archiviato un governo di Tripoli diventato fantoccio di Ankara e congedato un generale Khalifa Haftar troppo vicino a Mosca- potrebbe rivedere l'Italia al centro dei negoziati per la nascita di un governo di unità nazionale. Un ruolo che abbiamo già svolto in passato e che il Segretario di Stato preferirebbe riconsegnare a noi anziché ad alleati complessi e non sempre malleabili come Germania e Francia.

Ma di mezzo ci sono sempre Conte e Di Maio e la sorprendente leggerezza con cui - in poco più di un anno - hanno dilapidato l'indiscussa esperienza con cui l'Italia, da Andreotti a Berlusconi fino a Minniti, si è sempre destreggiata nel caotico mosaico libico.

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