Nella palestra della ’ndrangheta

Ripubblichiamo i reportage firmati dal direttore Vittorio Feltri per il "Corriere della Sera". Oggi la terza uscita, con la prima puntata del reportage dall'Aspromonte, uscita sul "Corriere" sabato 21 ottobre 1989

Nella palestra della ’ndrangheta

Da lontano non sembra neanche un paese, ma una piaga della montagna, una frana, un ghiaione. Le case acquattate attorno alla chiesa, che è dimessa quanto il resto, formano un grumo di pietre grigie. È San Luca, il borgo più scontroso dell'Aspromonte, 4500 abitanti, 1500 disoccupati, 50 sequestri di persona. Quasi tutti i sanlucati hanno un parente stretto che è stato o è in galera per rapimento. L'iconografia giornalistica ha sempre presentato il luogo come la palestra della 'ndrangheta, dove la gente o mangia la minestra della malavita o digiuna.

Corrado Alvaro, che vi nacque, fu più generoso e descrisse i compaesani come disperati, poveri di tutto tranne che di buoni e forti sentimenti. Ma Alvaro non fece in tempo ad assistere agli effetti devastanti prodotti in Calabria dai riflessi del boom economico: morì nel '56, e si rivolterà nella tomba. La scuola (elementare) che gli hanno dedicato è in sintonia con la generale putredine edilizia: un palazzotto con parecchie ferite e qualche mutilazione, polveroso, scorticato; sulla facciata, tra sfregi e vetri infranti, le lettere di bronzo, che componevano il nome dell'illustre uomo di penna, sono cadute lasciando impronte verdastre, sbiadite anche queste.

«È una civiltà che scompare, e su di essa non c'è da piangere, ma bisogna trarre... il maggior numero di memorie», egli annotò prima di andarsene, convinto che il progresso avrebbe sconfitto la miseria e cancellato il vecchio mondo di pastori. Era una specie di testamento col quale il letterato raccomandava ai posteri di non dimenticare i sacrifici dei padri. Le nuove generazioni non gli hanno obbedito. E se non hanno obbedito a lui, figurati se danno retta ai carabinieri, che vivono asserragliati in caserma, e hanno occhi spaventati e diffidenti quasi che i braccati fossero loro.

In un certo senso le previsioni di Alvaro si sono avverate: la civiltà contadina è scomparsa, ma al suo posto non c'è niente, una voragine nella quale il paese sprofonda. Arrivando qui ti consola un solo pensiero: quello di non doverci restare. La strada che percorro, la principale, è ripida e gibbosa. Nelle buche, ogni tre passi, si contano vari strati di catrame che rivelano anche all'incompetente la sciatteria con cui, da sempre, si fanno i lavori pubblici.

Cammino con impacciata lentezza fra una moltitudine di cittadini, che aumentano man mano che avanzo. Convergono sul corso dai vicoli, sbucano da ogni angolo, dai bar, dai saloni di barbiere, da qualsiasi parte, richiamati dalla presenza del forestiero, che suscita in loro più stupore che curiosità. E mi osservano con insistenza mentre ispeziono il disastro che mi circonda.

Su un divanetto tolto da una macchina in disuso si è accomodata una donna, sbuccia patate piccolissime, maneggiandole con destrezza, come un rosario. Ci sono anziane accovacciate, rattrappite in grembiuli neri, sulla soglia di tutte le case e bisbigliano sedute in circolo. Dalle porte aperte su anditi bui esce un alito caldo e umido che sa di verdure bollite e di muffa. È impressionante la quantità dei negozi, specialmente alimentari.

Imparo dal professor Santino Salerno, insegnante di italiano, che il fiorire dei commerci è un inganno: Tizio mette su una salumeria, fa abbondanti provviste che si impegna a pagare entro novanta giorni, intanto vende a credito. Trascorsi tre mesi, non pagherà e non avrà riscosso. Allora cambierà fornitori, ma continuerà a non pagare e a non riscuotere, finché non sarà fallito. Frattanto però si sono nutriti, lui e i suoi «clienti». Poi toccherà a un altro fallire, poi a un altro ancora. Così, a rotazione, tutti sono debitori e creditori.

Una catena di Sant'Antonio in cui perdono soltanto i grossisti, i quali però su consiglio della mafia nei loro bilanci tengono conto delle insolvenze e ne caricano il costo sui prezzi, quasi una tassa. A San Luca la microillegalità è il terreno di coltura della macroillegalità. Alle cosche preme che ci sia il maggior numero possibile di fedine e di coscienze sporche; quando si è fuori dalla legge, in più si è, meglio si sta; fra mariuoli si crea solidarietà e collaborazione. L'omertà, che non è segno di paura ma di adesione o di consenso al gruppo, è conveniente.

Gli onesti, anche se in maggioranza, sono meno potenti e meno appariscenti, quindi si sentono una minoranza di fessi. E molti di loro, spesso, saltano il fosso: a farglielo saltare basta poco; un certificato ottenuto in fretta per intercessione di un compare è la dimostrazione che è più facile e comodo vivere con gli «amici», e sotto gli «amici», che con lo Stato o sotto lo Stato. La metà delle abitazioni nel 1985 fu dichiarata abusiva. Cinquecento alloggi circa costruiti in qualche modo col sistema del raddoppio: chi aveva un piano, ha innalzato il secondo.

In parecchi casi - si dice - coi proventi dei sequestri, che è un'attività svolta alla luce del sole. Giuseppe D'Amico fu trasportato a San Luca, in ostaggio, con una betoniera; Giuliano Ravizza, in tassì. Poi dicono che la popolazione non sa. Ma torniamo ai 500 alloggi abusivi. Quando i proprietari ricevettero la notifica dell'irregolarità, non fecero una piega. Adesso è in corso una sanatoria (gestita dalla giunta comunista). Due soldi di contravvenzione in cambio dell'abitabilità. Abitabilità è un termine convenzionale: queste sono scatole di mattoni nudi, con servizi igienici approssimativi o inesistenti. Il massimo, comunque, cui aspirino i sanlucati, l'80 per cento dei quali non ha lavoro né gli stimoli per cercarselo.

La terra è avara, ma una volta, ricamata con la vanga da mezzadri tenaci, dava frutta di carnale bellezza e spighe grasse. Ora dalle zolle aride affiorano sassi, spuntano erbacce, crescono cardi e felci, paradiso di serpi. Sugli ulivi, protesi verso la marina come se anch'essi volessero scappare, marciscono le olive: raccoglierle sarebbe una fatica mal retribuita, è preferibile accontentarsi dell'integrazione Cee. L'olio, che per secoli fu oro, non si fa più al frantoio; si comprano lattine di spremuto pallido in drogheria. Ripudiata la zappa, gli orti agonizzano e sarebbero defunti se non fosse per i pomodori, che qualcuno appende alla finestra ad essiccare, come i peperoni, sicché i davanzali sembrano avvolti da fiammelle rosse: unica stonatura colorata nell'opacità urbana.

Non è vero che l'agricoltura non renda; ma rende di più fare il corriere della droga: a portare un pacchetto di eroina a Milano si guadagnano 5 milioni; il vivandiere di un ostaggio, mestiere di tutto riposo, incassa 30 o 40 milioni. Che si fa per combattere il crimine? Nulla. Se si fa qualcosa, questo qualcosa è tenuto ben nascosto.

Busso alla stazione dei carabinieri. I militari mi accolgono con grande cortesia e con un sospiro di sollievo, perché non ho e non do grane. Sono cinque ragazzi. Anche il comandante, brigadiere Vassalli, è un ragazzo. Hanno espressioni intelligenti. Ma a che serve l'intelligenza, qui? «Da noi - racconta il sottufficiale - i cittadini vengono per denunciare lo smarrimento del libretto Usl o della patente. Per altro si arrangiano, non gli cavi una parola che non sia sul bello o cattivo tempo. I mascalzoni sono il 25 per cento, gli altri si adeguano. Risultato, siamo soli contro tutti». Prima di congedarmi, si offre di accompagnarmi: «Non si sa mai», mormora sorridendo. E poiché rifiuto, mi domanda: «È armato?» Come se fosse normale per un cronista abbinare la pistola alla biro. Rispondo che no, e lui scuote la testa: «Stia attento... E faccia una prova, le garantisco che sarà istruttiva: chieda a quelli che incontrerà di indicarle la nostra caserma». Perché? «Capirà». Capisco subito. Coloro che sottopongo al test («Dove stanno i carabinieri?»), spalancano le braccia allocchiti, come se fossero arrivati all'istante da New York: «Non so, mi pare là sopra, o là sotto». Entro nella trattoria in piazza e ordino una birra. Il giovanotto al banco, di cui non ho il piacere di udire la voce nemmeno quando lo invito a comunicarmi «quanto devo», perché mi sfila mille lire dalle dita e me ne dà duecento di resto, estrae una bottiglia dal frigo e me la pone davanti, sul ripiano, con tale garbo che la schiuma deborda e cola sul pavimento. «Il servizio non comprende il bicchiere e relativo versamento?». Il giovanotto esita, poi mi passa una caraffa. Nel locale ci saranno dieci clienti maschi di età fra 40 e 70 anni.

Mi fissano con chiari intenti valutativi, come usano i sensali con i capi di bestiame di incerta qualità. Sono particolarmente interessati alle mie calzature, banali mocassini. Sembra la parodia di un western. Attraverso la piazza e mi accorgo che i carabinieri, in macchina, non mi perdono di vista. «Non si sa mai», aveva detto il brigadiere.

Non mi perdono di vista nemmeno alcuni uomini sui trent'anni, che in moto mi ronzano attorno dovunque metta piede. Nell'atrio del Comune, questa scritta: «La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile».

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