«Vaste programme»: Giuseppe Conte affida alle colonne amiche del Corriere della Sera e del Fatto Quotidiano, gemellati nella solenne occasione, il suo Piano Quinquennale.
Una fitta paginata di Grandi Riforme, anzi «profonde», per far fare al Paese un grande balzo in avanti, un «recovery plan» per uscire dalla crisi e «trasformarla in opportunità», perché «questo è il momento per alzare la testa e volgere il nostro sguardo al futuro». Si tratta di un programma di legislatura, anzi almeno un paio di legislature, con sterminato elenco di tutte quelle modernizzazioni e innovazioni e sburocratizzazioni e accelerazioni che - a dire il vero - erano già state promesse in almeno un paio di programmi di governo proposti dal medesimo Conte e votati da un paio di diverse maggioranze, per poi naturalmente sparire dall'orizzonte per lasciar spazio a navigator, porti chiusi, fiumi di sussidi ad Alitalia, prepensionamenti eccetera. Oggi vengono ripromesse, sull'onda del post-epidemia e dei massicci prestiti e aiuti che l'Unione europea si accinge a versare nelle esauste casse italiche.
La cosa curiosa, ieri, era che un simile colossale programma di epocali riforme, da quella del fisco a quella della burocrazia, dalle infrastrutture strategiche all'economia green, dalla digitalizzazione alla giustizia (inclusa una sostanziale eliminazione dell'abusatissimo reato di abuso di ufficio), non suscitasse pressoché nessun interesse, plauso o dissenso politico. Reazioni praticamente zero, a parte quelle del ministro per gli Affari europei Amendola e dei parlamentari M5s nella commissione Politiche europee. «L'Europa c'è. Ora il governo definirà, come ha detto il presidente Conte, un Recovery Plan nazionale collegato alle misure europee», dice il ministro, che è stato in queste settimane il vero tessitore, insieme al commissario italiano Paolo Gentiloni, dell'intesa per sbloccare il piano della Commissione.
Insomma, la solenne uscita del premier non è solo un messaggio interno, per far capire a chi - anche nella sua maggioranza - vorrebbe sgambettarlo che lui a Palazzo Chigi vuol restare incatenato fino a fine legislatura (poi si vede), perché ha grandi cose da realizzare. È anche un segnale richiesto in Europa, a garanzia che le enormi somme che la Ue si prepara a stanziare per farci uscire dal pantano non verranno come al solito dilapidate in miriadi di micro-interventi assistenzialistici, ma seriamente investite.
Conte, che vede il calo dei suoi sondaggi di popolarità e teme i contraccolpi della crisi sociale sulla stabilità del suo governo, spera di rilanciare la sua immagine, annettendosi il merito di aver spinto lui la Ue a decidere, al posto di Merkel e Macron: «Bruxelles va proprio nella direzione indicata dall'Italia, siamo stati descritti come visionari perché ci abbiamo creduto dall'inizio», twittava lirico ieri. Ora, auspica, sarà più facile far inghiottire ai M5s il boccone Mes, inzuccherato dal Recovery fund. Persino Gigino Di Maio, ieri, si profondeva in lodi del premier.
E finché Salvini e Meloni continueranno a tenere una linea da estremisti no-euro, pensano a Palazzo Chigi, non potrà coagularsi alcuna maggioranza allargata alternativa alla sua. Altro che asse tra i due Mattei: anche i renziani lo ammettono: «Finché Giorgetti, Zaia eccetera non prendono le distanze dalla linea salviniana, nessuna larga intesa oltre Conte sarà proponibile».
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