Vai alle Olimpiadi e sai che disattenderai i pronostici. Vai per chiedere giustizia nella fattispecie, anziché per conquistare una medaglia. Vai con un senso d'angoscia che eguaglia il coraggio e insieme con la contezza che non afferrerai un oro, un argento e neppure un bronzo, perché non è quel pezzo di metallo in mano ciò che più conta. Tecnicamente si chiamerebbe sconfitta eppure allo stesso tempo non perdi, anzi diventi tu il trionfo, tu la rivelazione, che in questo caso risponde al nome di Kimia Yousofi: velocista afghana che ha gareggiato qualche giorno fa nei cento metri classificandosi ultima, e mostrando a fine gara il proprio pettorale con su scritte le parole «Education», «Sport» e «Our rights», in riferimento a ciò che più manca alle donne del suo Paese, uno dei più repressivi al mondo, dal 2021 tornato sotto il controllo dei talebani.
Kimia espone dunque in diretta mondiale il suo stendardo della disperazione, questo lenzuolo delle lacrime così semplice e così tremendo, questo sudario marchiato a lettere e sangue. Kimia ha il volto patito, stanchissimo, è come se il suo intero corpo cedesse per comunicare un ultimo messaggio, che in Afghanistan sarebbe impensabile articolare ma che a Parigi si può ancora esprimere.
«Sono qui principalmente per questo», è come se dicesse, «per parlavi di quanto siamo oppresse nel luogo da cui vengo, il resto è secondario».Un gesto che sa tanto di fuori classifica. Un'audacia che sbalza Kimia oltre ogni griglia di punteggio, inchiodandola al di sopra di tutti e tutte. Questo è molto più che vincere, questo è essere la vittoria.
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