25 ottobre 2020. Una storiaccia di sesso (a pagamento), droga e affari sporchi. Una storiaccia che arriva dall'America e che dal sito Gateway Pundit rimbalza in tutto il mondo. Al centro dello scandalo c'è un sextape piuttosto torbido registrato in una villa a West Hollywood: al festino partecipa una donna, probabilmente una prostituta russa, insieme a lei c'è un uomo che fuma il crack. Non un uomo qualunque, però. Dicono si tratti di Hunter Biden, figlio dell'attuale presidente degli Stati Uniti al tempo in corsa per la Casa Bianca. La notizia non è un fulmine a ciel sereno perché da giorni girano altri video messi in giro da un altro sito, questa volta cinese, collegato in qualche modo a Steve Bannon.
Tutto da prendere con le pinze se non fosse che i blockbuster hard arrivano dopo la pubblicazione sul New York Post dell'affaire Burisma, la società energetica ucraina in cui lavorava Hunter Biden.
In questa storiaccia finisce coinvolto, per vie traverse, anche il sito del Giornale che il 28 ottobre pubblica un articolo sullo scandalo e che lo condivide sulla propria pagina Facebook. In poche ore, però, l'algoritmo interviene per bloccare il contenuto e notificare «una sospensione dell'account» di trenta giorni minacciando addirittura che la pagina venga «nascosta» agli utenti.
Nei giorni successivi la situazione si fa più chiara e apparentemente meno catastrofica. I contenuti condivisi su Facebook dal Giornale continuano infatti a circolare. Quello che in quei giorni non possiamo sapere è che, un secondo dopo la pubblicazione dell'articolo, la nostra pagina finisce in un cono d'ombra la cui portata si può vedere nel grafico che pubblichiamo. Prima della penalizzazione il traffico da Facebook cuba oltre 3 milioni di pagine viste. Da quel momento il crollo è verticale: in pochi giorni scendiamo a 500mila e da lì non ci schiodiamo più per un anno. Dobbiamo, infatti, aspettare ottobre 2021 per tornare a 5 milioni di pagine viste.
Fino a qualche giorno fa potevamo solo fare congetture sul perché Facebook avesse deciso di punirci così severamente per un articolo che si limitava a riportare i contorni di uno scandalo ampiamente diffuso dalla stampa americana. Oggi quelle congetture sembrano certezze. Zuckerberg ha finalmente ammesso che nel 2020 l'Fbi gli aveva espressamente chiesto di fermare «una potenziale operazione di disinformazione russa sulla famiglia Biden e su Burisma in vista delle elezioni». E così in autunno, quando il New York Post riporta le accuse di corruzione che coinvolgono la famiglia Biden, Facebook sguinzaglia i fact-checker per una revisione e segnala «temporaneamente» l'inchiesta come fake «in attesa di una risposta».
«Da allora è stato chiarito che non si trattava di disinformazione russa - ammette oggi Zuckerberg - e, col senno di poi, non avremmo dovuto declassare la Storia». Un declassamento che, «col senno di poi», ci porta a pensare abbia colpito anche il sito del Giornale per undici mesi e che molto ci dovrebbe interrogare sull'effettiva libertà di espressione al giorno d'oggi.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.