Cossiga, il presidente silenzioso che si trasformò in picconatore

Negli anni Sessanta da sottosegretario alla Difesa diede vita a Gladio, l'organizzazione segreta che avrebbe dovuto entrare in azione in caso di golpe del Pci. Ministro dell'Interno negli anni di Piombo, mandò i blindati per circondare gli universitari a Bologna. Si dimise dal Viminale dopo la morte di Moro. Fu eletto al Quirinale al primo scrutinio

Cossiga, il presidente silenzioso che si trasformò in picconatore

Per anni rimase in silenzio, limitandosi ad esercitare i suoi poteri quasi senza apparire. Poi, a due anni dallo scadere del mandato, si scatenò e iniziò a martellare la classe politica, denunciando le sue inefficienze e arretratezze. Per questa attività di pungolo Francesco Cossiga si guadagnò l’epiteto di “picconatore” (per le “picconate al sistema” che intendeva assestare). Colpo dopo colpo si era messo in testa di abbattere il muro della prima Repubblica, rinnovando la classe politica italiana ferma ai vecchi steccati della guerra fredda. Classe politica che, dopo il crollo del Muro di Berlino e l’inizio dell’inchiesta di Tangentopoli, era arrivata ormai alla fine della corsa.

Eletto il 3 luglio 1985, al primo scrutinio (non era mai accaduto prima), ottenne 752 voti su 977. Per lui votarono Dc, Psi, Pri, Pli, Psdi e Pci e altri esponenti della Sinistra indipendente.

Nato a Sassari nel 1928, cugino di secondo grado di Enrico Berlinguer, a soli sedici anni si diplomò, iscrivendosi l’anno successivo alla Dc. La laurea arrivò a neanche venti anni, iniziando ben presto una carriera universitaria brillante che culminò con la cattedra di diritto costituzionale all’università di Sassari.

Attivo in politica fin da ragazzo, militò nella Fuci (universitari cattolici) con incarichi a livello locale e nazionale. A venti anni, come raccontò molto tempo dopo, insieme ad altri dirigenti della Dc nascose bombe a mano e mitragliatrici, nell’ambito dell’organizzazione segreta Gladio, che avrebbe dovuto entrare in azione nel caso in cui il Pci avesse tentato di prendere il potere. “Mi armò Antonio Segni – raccontò – non ero solo, eravamo un gruppo di democristiani riforniti di bombe a mano dai carabinieri… prefettura, poste, telefoni, acquedotto, gas non dovevano cadere, in caso di golpe rosso, nelle mani dei comunisti”.

Nel 1958, a soli trent’anni, fu eletto in Parlamento. Nel 1966 divenne sottosegretario alla Difesa nel terzo governo Moro. Rimase in quel ruolo nel 1968, nei governi Leone e Rumor. Poi fu ministro per la Pubblica amministrazione e, nel 1976, divenne ministro dell’Interno. Nei cosiddetti anni di Piombo sui muri di tante città il suo cognome venne scritto con la K iniziale e le due s con i caratteri runici, per ricordare sinistramente le SS tedesche. Da responsabile della sicurezza nazionale usò il pugno di ferro contro l’eversione e gli eccessi delle proteste di piazza. A Bologna, ad esempio, per porre fine a una dura protesta degli universitari, mandò i carri armati M113.

Il sequestro e l’uccisione di Moro

Quando il presidente della Dc, Aldo Moro, fu rapito dalle Br, c’era Cossiga al Viminale. Creò due comitati per la crisi, uno ufficiale, l’altro ristretto. Dalla prigionia Moro scrisse due lettere a Cossiga. Questi le mise in discussione, parlando di “lettere non moralmente autentiche”. Dopo il ritrovamento del cadavere di Moro, l’11 maggio 1978, Cossiga si dimise da ministro dell’Interno

La richiesta del Pci di messa in stato d’accusa

Un duro colpo, per Cossiga Presidente della Repubblica, fu la mossa del Pci, guidato da Achille Occhetto, di chiederne la messa in stato di accusa per il caso Gladio, la cui esistenza era stata ammessa dal capo del governo Giulio Andreotti. Cossiga stesso con malcelata soddisfazione aveva detto di aver lavorato alla sua messa a punto quando, tra il 1966 e il 1969, era stato sottosegretario alla Difesa. E per questo si autodenunciò alla procura di Roma dopo che erano stati denunciati due generali, come responsabili dell’organizzazione. Il Pci parlò di “democrazia limitata” e ne nacque una polemica durissima, con Cossiga che si disse pronto a dimettersi purché lo avesse fatto anche Andreotti. Lo scontro andò avanti e, il 6 dicembre 1991, il Pci presentò ufficialmente, in Parlamento, la richiesta per mettere in stato di accusa Cossiga, con ben dieci capi di accusa. La richiesta fu ritenuta infondata dall’apposito comitato parlamentare e la Procura di Roma chiese l’archiviazione, accolta dal Tribunale dei ministri.

Le dimissioni polemiche

Dopo le elezioni del 5 aprile 1992, cercando di imprimere l’ennesima picconata al sistema che aveva cercato, negli ultimi due anni, di riformare, Cossiga decise di lasciare l’incarico e si dimise da Capo dello Stato. Anticipo di due mesi la fine del suo mandato, annunciando le dimissioni agli italiani con un discorso trasmesso in diretta tv il 25 aprile. Pochi mesi prima, a gennaio, si era dimesso dalla Democrazia cristiana, di cui aveva fatto parte da quando era ragazzo.

L’Udr e l’appoggio a D’Alema

Da senatore a vita rimase sempre molto attivo, in politica, continuando ad “esternare” e sostenendo, con il proprio voto, diversi governi. Quando Rifondazione comunista nel 1998 fece cadere il governo Prodi, Cossiga diede vita a un nuovo partito, l’Unione democratica per la Repubblica (Udr), alleandosi con Buttiglione, Mastella e altri esponenti.

Questo piccolo partito fu decisivo per la formazione del governo presieduto da Massimo D’Alema. Cossiga volle enfatizzare quel sostegno sottolineando che, in questo modo, si poneva fine all’esclusione che sempre era esistita nei confronti dei leader di partito del Pci (da cui il Pds di D’Alema era nato).

Francesco Cossiga

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