Dalle critiche alle congratulazioni. Il muro dei pregiudizi, dei preconcetti e delle ideologie è venuto giù in poche ore, Fra Roma, Parigi e Berlino, Giorgia Meloni assapora la sua rivincita.
Ora l'hanno accettata e parlare con lei non è più un graffio sul curriculum. Certo, la leader di FdI ha fatto di tutto per rassicurare, tranquillizzare, confermare i passi dei governi precedenti. Ma poi sono arrivate le dichiarazioni che pesano, come quella del portavoce del cancelliere Olaf Scholz. Scholz, subito dopo il battesimo del nuovo esecutivo, aveva pubblicato un post di felicitazioni e qualche voce si era alzata sottolineando la troppa benevolenza mostrata nei confronti di un esecutivo post fascista.
Le parole del portavoce chiudono il caso: «La Germania collabora con tutti i governi europei e in questo senso il cancelliere ha postato il tweet sabato e ci sarà anche un telegramma di congratulazioni a seguire».
Il governo di sinistra tedesco si inchina davanti alla volontà del popolo italiano che ha premiato la destra. Un punto a favore e, a dirla tutta, un successo dietro l'altro.
Domenica mattina va in scena il passaggio delle consegne fra Mario Draghi e Giorgia Meloni e lui la accoglie con un caloroso «Benvenuta». Ma soprattutto si ferma a parlare con lei oltre un'ora e le consegna carte e dossier per darle poi, in un clima disteso, la mitica campanella. Sorrisi. Strette di mano. I sottosegretari alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano e Roberto Garofoli, si scambiano informazioni. Altro che incomprensione.
Se pensiamo al passaggio malmostoso fra Giuseppe Conte e Mario Draghi, qua siamo in un presepe. E la sera stessa, in corsa, ecco che la neo premier incontra il presidente francese Emmanuel Macron: altro meeting disteso e cordiale. Lui avrebbe potuto sfilarsi, inventarsi una scusa, anche perché non era affatto scontata quell'accelerazione della transizione italiana nelle ultime ore. E insomma, se la sarebbe potuta cavare evocando l'agenda tiranna.
Invece il presidente francese va all'appuntamento e stabilisce un rapporto di collaborazione con Meloni. Poi twitta: «Come europei, come Paesi vicini, come popoli amici, con l'Italia dobbiamo continuare tutto il lavoro iniziato». Non sarà una luna di miele, ma è qualcosa che non ha nulla a che fare con una sorda ostilità inscalfibile.
L'hanno sdoganata e il dibattito sul post Fascismo, sulla fiamma e tutto l'armamentario del passato, finisce in soffitta. A Washington il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si congratula con Giorgia Meloni e una nota, importantissima, della Casa Bianca parla dell'Italia «alleato vitale della Nato e partner stretto» degli Usa. Se non è una benedizione, poco ci manca. Ursula Von der Leyen è sulla stessa linea: «Sono lieta di lavorare insieme». E il presidente del Consiglio europeo Charles Michel invita il nuovo capo del governo: «La aspetto a Bruxelles».
Sono tutti segnali che certe preoccupazioni della vigilia si sono dissolte. Non ci sarà una Orban in gonnella a Roma, ma semmai un premier che senza rinunciare all'identità tricolore, ribadita anche lessicalmente nel nuovo nome di alcuni ministeri, vuole dialogare con l'Europa e trovare posizioni comuni.
A Roma accade qualcosa di analogo: Luciano Violante, autore di uno storico discorso nel 1996 sui vinti di Salò e sul bisogno di legittimare quella parte reietta del Paese, fa un altro passo in avanti: «Giorgia Meloni - spiega a Tiziana Panella nello studio di Tagadà- non vuole costituire un partito neofascista ma un partito
conservatore e questo dà un asse nuovo e responsabile alla destra e sarà importante per la sinistra che potrà capire la necessità costituirsi come partito progressista». Quasi un ringraziamento a chi ieri era guardata con sospetto.
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