
«Mother should I trust the government?». Pare che in America il vecchio vinile di The Wall, col suo bel carico di diffidenza verso il potere, sia tornato a risuonare forte. Mattone dopo mattone, sta infatti crescendo il muro che separa Donald Trump da imprese, cittadini e mercati, ora che nei gangli vitali dell'America comincia a insinuarsi qualche spiffero recessivo reso ancor più insidioso da un'inflazione pronta a rialzare la resta.
È un po' come se rughe precoci avessero già iniziato ad aggredire il MAGA trumpiano, spogliandolo della narrazione retorica per metterne in evidenza l'incertezza che va generando. Soprattutto con i dazi, considerati da una vecchia volpe come Warren Buffett «un atto di guerra: non li paga la fatina dei denti». Così sarcastico con Volodymyr Zelensky per l'outfit para-militare esibito a Washington, l'inquilino della Casa Bianca non sembra rendersi conto che la mise da protezionista non è più la stessa esibita durante il suo primo mandato. Quando, con molta più oculatezza, aveva calibrato le dosi di quella politica economica secolare chiamata industrializzazione sostitutiva delle importazioni. Una strada tracciata da un pioniere della materia, il primo segretario al Tesoro Usa, Alexander Hamilton.
È proprio lo iato fra il Trump 1.0 e quello nella versione successiva a risultare spiazzante anche per quanti lo avevano sostenuto, e votato con convinzione, proprio per affermare una cesura con l'amministrazione Biden. Ritenuta - a torto o a ragione - responsabile del surriscaldamento dei prezzi e di aver contribuito alla lievitazione del debito federale fino a 35mila miliardi di dollari anche attraverso il sostegno finanziario offerto all'Ucraina. Il nuovo Trump ha invece due priorità: l'imposizione di politiche tariffarie e di forte contrasto all'immigrazione. Quello subentrato dopo gli otto anni del We can di Barack Obama aveva invece messo in cima all'agenda i tagli fiscali e una profonda deregolamentazione che disboscava la giungla di lacci e lacciuoli sorta dopo il disastro dei mutui subprime. Anche l'aggressione all'enorme spesa federale che sostiene l'elefantiaca macchina burocratica a stelle e strisce ha avuto inizio col You are fired! che ha brutalmente spedito a casa migliaia di dipendenti pubblici, senza tuttavia tener conto che servono a poco i licenziamenti di massa se migliaia di leggi e regolamenti inutili o dannosi non vengono depennati.
Proprio per l'inedito modus operandi, l'economista di Pimco, Tiffany Wilding, è arrivata alla conclusione che «l'amministrazione Trump non è concentrata sul mercato azionario. Non è concentrata sul dolore a breve termine». Ma la Casa Bianca è davvero capace di sopportare un prolungato avvitamento di Wall Street? Un segnale forte e chiaro che la luna di miele fra The Donald e gli investitori sia ai titoli di coda è arrivato dall'indice Standard&Poor's, che la scorsa settimana ha cancellato tutti i guadagni incamerati dal giorno dell'affermazione elettorale repubblicana. Ma un cambio di mood è rintracciabile anche nel fatto, come sottolinea Goldman Sachs, che le azioni statunitensi hanno subìto, sempre la scorsa settimana, la più grande vendita netta in oltre un anno scandita dalle vendite allo scoperto degli hedge fund. Non solo: a soffrire sono state soprattuto le small cap, ovvero quei titoli che fanno capo alle imprese che avrebbero dovuto beneficiare dell'idea secondo cui «Trump stimolerà la crescita interna».
È del tutto evidente che questa sorta di cortocircuito del mercato azionario non fa altro che alimentare i timori di una recessione (la prima spia rossa l'ha accesa la Fed di Atlanta con la stima che nel primo trimestre il Pil si contrarrà dell'1,5%), considerando anche il peso dei titoli azionari nelle mani delle famiglie. Che sono già in modalità trincea: non solo per i rincari del prezzo della benzina e il maggior peso delle rate sui mutui, prossime al 7%, ma per le ripercussioni sul potere d'acquisto derivanti dai dazi. «Circa 7 americani su 10 pensano che faranno aumentare il prezzo dei prodotti negli Stati Uniti», ha rivelato un sondaggio Washington Post-Ipsos. Non a caso, la spesa per consumi personali è scesa dello 0,5% in gennaio a causa del brusco calo degli acquisti di beni durevoli che ha riguardo in particolare le automobili. I consumatori, preoccupati per l'impatto delle tariffe punitive, hanno in sostanza anticipato lo shopping alla fine del 2024. Il barometro dell'inflazione segnala infatti turbolenze in arrivo: due sondaggi stimano che i prezzi al consumo potrebbero oscillare quest'anno tra il 4,3 e il 4,8%, contro il 2,5% d'inizio anno.
Ciò pone un serio problema con la Federal Reserve guidata dal «nemico numero uno dell'America» (Trump dixit), Jerome Powell, fattosi prudente proprio a causa delle ripercussioni inflative della Trumpnomics. Il tycoon ha già esercitato pressioni sulla Fed affinché tagli i tassi: da qui e almeno fino a maggio, Eccles Building non ci sentirà da quell'orecchio.
Anche perché mal si concilia con l'allentamento monetario una politica incardinata sui dazi che necessita di un dollaro forte, in modo da rendere i prezzi attraenti per l'importazione di beni intermedi e ottenere capitali necessari all'industrializzazione. Un concetto basico che, prima o poi, qualcuno dovrà spiegare al Gabelliere Trump.
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