Quell'argomento, lo ius soli, continua ad essere pernicioso, ma un piccolo sentiero per trovare una via d'uscita Paolo Gentiloni e Matteo Renzi l'hanno trovato già la scorsa settimana. Un'ipotesi da cui emerge la diversità di carattere, di profilo politico e di filosofia di governo, che, nei fatti, divide il premier dal segretario del Pd. Venerdì scorso, 7 luglio, cioè esattamente una settimana dopo che Matteo Salvini lo aveva avvertito della sua intenzione di aprire le porte a tutti i centristi che si sarebbero schierati contro lo ius soli, Renzi ha affrontato in un colloquio con Gentiloni quella tematica che, portata all'estremo, potrebbe provocare anche una crisi di governo. E, com'è nel suo stile il leader del Pd, anche con quell'interlocutore, che conosce da una vita e a cui è legato da una vera amicizia, è arrivato subito al punto. «Paolo - gli ha spiegato - vedi cosa vuoi fare. Se non hai voglia di andare avanti in questa situazione logorante, possiamo anche osare e rischiare una crisi sullo ius soli. Poniamo una questione di principio su una tematica molto sentita a sinistra». Un discorso tutto politico, per riposizionare il partito sul fianco più esposto dopo la sconfitta alle ultime amministrative, al costo di affrontare una certa percentuale di rischio, visto che la questione ius soli nei sondaggi è vista dalla maggioranza degli italiani come una mezza bestemmia. Solo che per indole e formazione, Gentiloni, queste battaglie le rifugge. L'uomo ha una tale allergia per angoli e spigoli, che vivrebbe in una casa tutta circolare. Così sfoderando un romanesco bagnato sul Tevere, con il cinismo sfrontato di chi è figlio di una città che per duemila anni ha avuto a che fare con il papato, il premier ha risposto al suo interlocutore: «A Matté se vediamo che non si riesce a fa, che facciamo? Lo ritiriamo...».
Appunto, «a Mattè», se non se po' fa, se tira a campà. E in quella frase il segretario del Pd ha rivisto il modo di ragionare di tanti democristiani famosi. Gentiloni gli è apparso come una via di mezzo tra Forlani e Andreotti. «Più Forlani», ha confidato ad uno del suo cerchio qualche giorno dopo. E visto che quel tipo di risposta Renzi più o meno se l'aspettava, non ha fatto una piega: «Fai come vuoi, ma deve essere chiaro che è il governo a battere ritirata, non il Pd. Anche perché io lo ius soli me lo sono ritrovato. Era uno dei dieci punti che il governo avrebbe dovuto assolutamente approvare, secondo il decalogo di Repubblica, di Prodi e di Letta. Messo lì apposta per farmi litigare con Berlusconi, mentre si trattava sulla legge elettorale. Una mina piazzata con l'intelligenza politica di chi non si è reso conto che stava facendo un favore proprio al Cavaliere».
Appunto, è il governo che si deve ritirare, non il Pd: è questa la condizione del segretario. E su questo passaggio Renzi non è disposto a fare sconti. Non è che non sottovaluti il rischio di una crisi. Dopo l'amnistia «ai centristi», «a chi ha tradito», di Salvini sull'altare dello ius soli, le file della maggioranza si sono assottigliate. «Se si arrivasse al voto al Senato - confidava nei giorni scorsi Guido Crosetto, uno dei fondatori di Fratelli d'Italia - anche la Meloni lancerebbe quell'appello, seguendo l'esempio di Salvini». E il livello di guardia del pericolo «crisi» nei giorni scorsi deve essere stato superato ampiamente se il Cav, in procinto di fare la stessa cosa, all'ultimo momento ci ha ripensato, per non provocare una sorta di «liberi tutti» nelle file centriste della maggioranza con il rischio di andare direttamente alla «crisi». Un pericolo reale, non supposto, visto che anche ministri e membri di governo come Enrico Costa, hanno già detto che, se messi alle strette con il voto di «fiducia», sarebbero pronti a votare contro. Ma, malgrado i rischi, Renzi non può cambiare linea. Il problema non è tanto quello di aprire la strada alle elezioni che a lui, comunque, non dispiacerebbero anche se le considera ormai improbabili. La questione è un'altra e non è meno delicata: il rottamatore è convinto che, se non vuole arrivare al voto con le ossa rotte (questa volta le sue), deve diversificare la posizione del Pd da quella di un governo che ormai va avanti per inerzia, secondo la logica democristiana del «tirare a campare». Ecco perché sullo ius soli, come sulla proposta di abolizione del «fiscal compact», Renzi non può permettersi di fare passi indietro. Semmai sono Premier e ministri che debbono barcamenarsi: Gentiloni rinviando al futuro l'argomento ius soli, più o meno come Padoan ha fatto con il fiscal compact. Una tattica con la quale il segretario del Pd punta a sollevarsi un po' delle responsabilità di un'azione di governo pressoché inerme (e in alcuni casi nociva), tentando magari di caricarle sulle spalle di qualche spettatore interessato, che non vuole le elezioni, ma, contemporaneamente, vuole che sia il solo Pd a scontare le conseguenze dei limiti dell'attuale quadro politico. Un discorso che vale per il centro-destra e, fra qualche settimana, anche per gli scissionisti del Pd, che si preparano a prendere le distanze da Gentiloni. Una dinamica di cui si vedono i primi segnali, ma che scoppierà fragorosamente con la legge di stabilità. «Guarda Paolo - è stato il ragionamento con cui l'ex-premier aveva messo sull'avviso qualche settimana fa il suo successore - Bersani e D'Alema o ti chiederanno una legge di stabilità che rinneghi tutto quello che ha fatto il mio governo in questi anni, o ti lasceranno solo.
E a quel punto avrai bisogno di Berlusconi». Proprio il discorso di cui il Cav non vuol sentir parlare («non se ne parla»). Solo che per evitare un epilogo, che è nell'aria, anche il leader di Forza Italia farebbe bene a prendere le sue precauzioni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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