
Che non ci sarebbero stati scontri né tensioni all'interno della maggioranza era chiaro da giorni. E addirittura inequivocabile da lunedì pomeriggio, quando - dopo una telefonata tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini - la Lega ha deciso di mettere la sordina alle polemiche dell'ultima settimana sul piano ReArm Europe presentato a Bruxelles da Ursula von der Leyen. Un segnale in vista dell'appuntamento di ieri in Senato, dove la premier ha tenuto le consuete comunicazioni al Parlamento che precedono ogni Consiglio europeo (oggi si replica alla Camera). E sulle quali la maggioranza è riuscita a mettere da parte le proprie divergenze per trovare un'unità d'intenti non solo nella risoluzione unitaria approvata a sera, ma anche - più inaspettatamente - nei modi e nei toni. Al punto che Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega a Palazzo Madama, chiude il suo intervento con tanto di «complimenti» alla premier «per il suo discorso».
Insomma, la tregua voluta con forza da Meloni ha retto. Con la premier che nel suo intervento ha giocato di equilibrismo sui passaggi più spinosi, a partire dal ReArm Eu che nel voto al Parlamento europeo della scorsa settimana aveva visto Fdi e Fi da una parte (favorevoli) e Lega dall'altra (contraria). Come pure Meloni ha ribadito il suo sostegno «agli sforzi di Donald Trump» per arrivare a un accordo di pace, altro fronte su cui la maggioranza si muove con sfumature molto diverse. Confermando infine il suo scetticismo sull'accelerazione di Parigi e Londra per un intervento di truppe europee a garanzia di un'eventuale tregua. Un'altra questione spinosa, non tanto dentro la coalizione di governo quanto rispetto ai partner europei. Tanto che ieri Meloni ha rilanciato ancora una volta l'idea di applicare all'Ucraina un meccanismo simile all'articolo 5 della Nato a cui aderiscano «le nazioni che intendono sottoscrivere» l'accordo. Ma non fuori dall'Alleanza atlantica, visto che - spiega Antonio Tajani mentre entra in aula - «senza gli Stati Uniti non si va da nessuna parte». In verità, però, i negoziati per una pace procedono con fatica nonostante il lungo colloquio di ieri tra Trump e Vladimir Putin. Che ha chiesto con forza di interrompere il sostegno militare occidentale a Kiev, condizione che - al pari dei partner europei - non convince affatto Palazzo Chigi.
In Senato, dunque, la premier è riuscita a muoversi con estrema prudenza, evitando di andare in contrasto sia con von der Leyen (che però non nomina mai) che con Salvini. Anzi, il vicepremier e Meloni ci tengono a far sapere attraverso i loro staff che si sono sentiti anche ieri prima del dibattito in Senato, scherzando su quelli che definiscono «presunti litigi» tra di loro. E il fatto che il leader della Lega non sia in aula - informa una nota di via Bellerio - è solo casuale e legato a impegni precedenti che aveva a Varsavia e Bruxelles. Dove i due potrebbero incrociarsi oggi, alla vigilia del Consiglio Ue. Non si esclude, infatti, che Meloni possa partecipare all'evento «Vinitaly Preview: l'eccellenza del Made in Italy a Bruxelles», in programma questa sera nella capitale belga e a cui parteciperanno il presidente della Camera Lorenzo Fontana e il ministro Francesco Lollobrigida. Salvini, che oggi pomeriggio riceverà a Bruxelles il Premio Janos, potrebbe infatti decidere di affacciarsi.
Un clima, insomma, di distensione. Che Meloni e Salvini abbiano visioni diverse su molti dossier e che spesso si registri più di una tensione è in verità cosa che in Parlamento non nega neanche l'ultimo dei peones. Detto questo, non c'è dubbio che ieri i due si siano mossi d'intesa.
Con la premier che ha accuratamente evitato tutti i fronti polemici, limitandosi a ripetute frecciate al M5s di Giuseppe Conte (sulle spese di difesa o sul «protagonismo delle parole») che qualche malizioso ha immaginato destinate anche al leader della Lega. E con Salvini che ha chiesto ai suoi senatori di evitare polemiche, tanto che alla fine l'unico passaggio fuori dal coro arriva da Claudio Borghi che invita il governo a «non farla passare liscia a von der Leyen».
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