Alla fine è successo. Vladimir Putin ha annunciato al popolo russo e al mondo la sua decisione: Mosca riconosce ufficialmente l'indipendenza delle due repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk. Da ieri sera l'intero Donbass - 17mila chilometri quadrati e 3,7 milioni d'abitanti in larga maggioranza russofoni - non è più Ucraina. Ma la stessa Ucraina per lo zar Vladimir altro non è che «una parte della nostra cultura, della nostra storia. Gli ucraini sono membri della nostra grande famiglia russa» e il loro Stato oggi indipendente è solo «il risultato delle nefaste politiche sovietiche. Lenin ne fu l'autore e l'architetto». Un atto d'accusa durissimo verso il defunto regime comunista, primo responsabile del disastro attuale. Per Putin fu, all'indomani del crollo del sovietismo, proprio il Pcus ad aver distrutto la «Russia storica». Un vulnus di cui i governanti ucraini hanno «approfittato rifiutandosi di riconoscersi nella nostra storia comune. L'Ucraina non ha mai avuto un'autentica tradizionale nazionale e i suoi politici seguono modelli stranieri opposti agli interessi degli ucraini». Dunque per Mosca lo stesso governo di Kiev è privo di legittimità storica e non è e non può essere un interlocutore credibile. Una scelta pesante che pone una pesantissima ipoteca sul futuro.
Ma andiamo per ordine. Tutto ebbe inizio in quel fatidico 20 febbraio 2014 con il massacro di piazza Maidan a Kiev e lo scatenarsi della cosiddetta «rivoluzione arancione» un fenomeno appoggiato apertamente dall'ambasciata americana e dagli alleati europei che portò alla deposizione dell'allora presidente Viktor Yanukovych, filo-russo ma democraticamente eletto. Per il Cremlino fu la fatidica goccia che fece traboccare l'immancabile vaso. Incalzata, con le spalle al muro, la Russia ha da allora reagito, graduando con una certa maestria le risposte militari e diplomatiche, alternando chiusure ad aperture.
Si è aperta così una partita vitale per Mosca; da sempre l'Ucraina con i suoi 700mila chilometri quadrati d'estensione è strategica. Per più motivi, tutti importanti. In primis, attraverso le grandi pianure le «terre nere», milioni di ettari fertilissimi passano circa 40mila chilometri di gasdotti e il 30% dei bisogni energetici dell'Europa (il 43% dell'Italia) e dai porti di Odessa e Sebastopoli si movimenta tutto il traffico della Federazione verso il Mediterraneo e i mari caldi. Poi vi è il dato militare: il lunghissimo confine è una sterminata pianura, assolutamente, priva di ostacoli naturali com'è, indifendibile. Da qui nel 2014 l'annessione della Crimea (nel timore che Kiev la concedesse alla Nato) e la sollevazione dell'Ucraina ortodossa e russofona (il Donbass, appunto), lo stato di semi-guerra e poi la fragile tregua armata, i due accordi per l'autonomia firmati a Minsk ma mai entrati in vigore, la ripresa (a bassa-media intensità) delle ostilità, l'appoggio sempre più determinato di Mosca alle repubbliche ribelli con i mercenari della Wagner e consiglieri ufficiosi. Poi la mobilitazione militare e l'accerchiamento russo, il confronto con gli Stati Uniti e la Nato e, infine, il riconoscimento ufficiale di ieri.
La parola passerà alle armi? Al momento improbabile.
Putin ha riaperto un'altra volta la porta alle trattative con l'Occidente, il suo ministro degli Esteri Lavrov volerà a Parigi venerdì a chiedere una volta di più garanzie per la sicurezza della Russia. Poi si vedrà. Nel frattempo Mosca firmerà degli «accordi d'amicizia e cooperazione» con i suoi satelliti di Donetsk e Lugansk al fine «di mettere fine agli spargimenti di sangue fraterno». Il ping pong prosegue.
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