Dalla bella trasmissione televisiva di Paolo Del Debbio apprendo che il ministero delle Pari Opportunità ha bandito dal nostro vocabolario la parola «zingari». Non la si può usare, tanto meno in una trasmissione pubblica. È un tipico caso di stupidità burocratica. Quando si incomincia col proibire l'uso di certe parole, la strada che conduce alla morte della libertà si sa bene dove arrivi: a un danno non solo per chi si ritiene di proteggere in nome di una falsa idea di politicamente corretto, ma per chiunque altro viva in un Paese siffatto. La parola è bandita perché è ritenuta una brutta parola o, meglio, perché sarebbe l'espressione che definisce un modo di vivere profondamente diverso da quello comune. Ma il ministero delle Pari Opportunità, tanto sensibile alla parola, è del tutto insensibile e non fa nulla per facilitare l'integrazione degli zingari, o rom che siano, incominciando, ad esempio, col costringerli a mandare i figli a scuola invece di consentire loro di addestrarli a borseggiare i viaggiatori della metropolitana.
Non credo sia una forma di rispetto per i rom lasciare che essi si comportino da noi come non conoscessero, o come non ci fossero, altre leggi e altri modi di vivere se non i loro. L'integrazione dei rom, o zingari che dir si voglia, è diventato un problema perché la «Repubblica fondata sul lavoro» tollera o, addirittura facilita, che ci siano immigrati che non lavorano, che vivono a spese della collettività che li ha accolti, che continuano a comportarsi secondo regole e costumi loro propri. Un Paese normale, che si rispetti, che voglia essere rispettato, e non sia prigioniero dei propri pregiudizi, per quanto nobili essi gli sembrino, dovrebbe dire chiaramente a chi vuol venire da noi quali sono le nostre leggi e quali i nostri costumi e che se vuole vivere in Italia si deve adeguare agli uni (i costumi) e rispettare le altre (le leggi). Chi non si adegua, lo si rispedisce al proprio Paese di origine o dal quale proviene.
Fa parte della cultura nomade degli zingari avere e coltivare propri modi di vita che non sempre, o quasi mai, coincidono con quelli dei Paesi dove si insediano. Un conto è rispettare quei modi di vita e non imporre forme di integrazione che li contraddicano apertamente; un altro è illudersi che chiunque arrivi da noi, da qualunque parte arrivi, si adegui ai primi e rispetti le seconde senza manco conoscerle. Da noi, rubare è un crimine e, in quanto tale, è perseguito, indipendentemente dall'etnia cui appartiene chi ruba. Chi lo fa è fuori dalla nostra legge e, in quanto tale, è fuori dalla convivenza comune a tutti i cittadini italiani. Punto. Il resto sono chiacchiere buoniste o, peggio, è l'alibi col quale si legittima la speculazione di interessi economici e finanziari sui quali campa troppa gente, a partire da quegli scafisti che imbarcano gli immigrati e poi li abbandonano in mare in modo che la nostra Marina militare li salvi e il nostro ordinamento giuridico sia costretto a ospitarli come rifugiati. È inaccettabile consentire a chiunque arrivi di comportarsi come crede in spregio ai costumi diffusi e in violazione delle leggi.
Così com'è inaccettabile che lo Stato sia complice dei malfattori o degli speculatori che sull'immigrazione si arricchiscono. È vergognoso, uno dei tanti danni che la sinistra ha fatto al Paese e a chi ci lavora e ci vive onestamente come tanti fra gli stessi immigrati.piero.ostellino@ilgiornale.it
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