Un duello infinito: ma un cavillo non può uccidere le scelte politiche

Vero che la norma europea prevale. Ma i magistrati italiani esagerano

Un duello infinito: ma un cavillo non può uccidere le scelte politiche
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Ne resterà uno solo, e sarà il decreto sull'immigrazione voluto dal governo. È vero, c'è un conflitto dei poteri dello Stato, ma non è la solita scaramuccia tra politica e magistratura, è uno scontro di sistema che ha in palio il primato del potere politico (e dell'esecutivo) rispetto al potere giudiziario: il quale, in Italia e negli ultimi decenni, è parso progressivamente sempre più invasivo rispetto alla tripartizione prevista dalle democrazie occidentali, vuoi per dei colpevoli e dolosi vuoti lasciati dal potere legislativo e vuoi, e siamo al punto, perché in Italia le stesse magistrature hanno sempre avuto l'ultima parola nell'interpretare molto soggettivamente le leggi che dovevano applicare. Lo scontro sui centri in Albania, all'apparenza (solo all'apparenza) dovrebbe segnare punti a favore delle magistrature, se è vero che i giudici romani che hanno bocciato il decreto governativo si sono rifatti a un'articolata sentenza europea: e tutta la giurisprudenza europea, per chi non lo sapesse, per definizione ha la «primazia» (o prevalenza) su tutte le norme nazionali degli stati membri, questo non solo nei confronti delle leggi e dei decreti, ma persino sulle Corti Costituzionali e in parte sulle Costituzioni. In questo non si scappa, nell'Europa comunitaria non ci sono più degli Stati compiutamente sovrani: da qui, perlopiù in passato, la volontà anche di alcune forze politiche italiane (tra queste Fratelli d'Italia) di riaffermare il primato del nostro diritto su quello dell'Unione, stabilire cioè che le leggi italiane valgano più di quelle comunitarie e che, dunque, un governo o un Parlamento possano aggirare certe sentenze e certa giurisprudenza. Ma è acqua passata, si diceva, è una battaglia accantonata al pari delle velleità anti-europeiste che appartenevano anche a partiti di questo al governo. Senza farla troppo lunga, la Costituzione non lascia scampo: l'articolo 11 dice che la Repubblica può accettare delle limitazioni alla sovranità, nel caso abbia aderito a organismi sovranazionali, e l'articolo 117 spiega che le nostre leggi sono fatte «nel rispetto dei vincoli comunitari». Un giudice dunque può contestare una legge italiana se ritenga in conflitto col diritto dell'Unione: che è quello che è successo col decreto Italia-Albania. Ovviamente la regola vale anche al contrario, e non si contano i casi in cui la Corte europea ha condannato i giudici italiani per le loro interpretazioni di legge: celebre il caso di Bruno Contrada, che secondo la corte di Strasburgo non doveva essere condannato «per concorso esterno in associazione mafiosa» perché all'epoca dei fatti (dal 1979 al 1988) il reato neppure esisteva. E qui si incomincia a intravedere la differenza di mentalità tra la magistratura europea e quella italiana: quando i legali di Contrada si rivolsero alla corte d'Appello di Palermo affinché recepissero la sentenza europea, da Palermo risposero che «non riconoscevano le motivazioni giurisprudenziali della Corte» e che dichiaravano inammissibile la richiesta di revoca, essendo basata su «un'interpretazione comunitaria di fatto incompatibile con l'ordinamento italiano». Ovvio che i giudici dovettero piegare la testa, ma ci volle un po'. Dovranno farlo anche questa volta: ossequiarsi a una legge che, dato lo zelo fazioso di certa magistratura, renda inequivoca l'applicazione della legge precedente.

È quello che appunto accadrà con la legge sull'immigrazione Italia-Albania: legge che, per ovviare alla pedanteria interpretativa e assai soggettiva a cui ci ha abituato la magistratura italiana, lunedì scorso è stata «corretta» in modo tale che i giudici italiani non possano più disapplicarla, e in modo tale, soprattutto, che il primato della politica abbia la meglio su un potere giudiziario che ha facoltà di interpretare le leggi solo entro precisi limiti sui quali veglia regolarmente la stessa Comunità europea: la quale, da quando esiste, non si limita a una fredda uniformazione normativa dei codici (altrimenti le nazioni europee sarebbero tutte uguali, con leggi identiche e valide per tutti) ma considera che al di sopra della legge non ci sia un vuoto metafisico, come vorrebbero i fautori delle repubbliche giudiziarie, ma c'è la volontà di chi

la legge ha scritto e voluto su mandato degli elettori. Questo mandato, questa volontà del governo, ora è combattere l'immigrazione clandestina con politiche e soluzioni che vedono l'Italia tutt'altro che sola, in Europa.

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