Giù la maschera. Il grande calcio getta via anche l'ultimo velo della sua ipocrisia: non è più uno sport, è solo un business. Un'industria che investe, fattura, spende e deve remunerare il capitale dei suoi azionisti. Condizioni incompatibili sia con l'alea del risultato sportivo, sia con la mutualità richiesta dalle grandi competizioni. Qualcuno si immagina che Mc Donald's - per trovare un paradosso - debba sospendere per un anno la vendita di hamburger dopo aver perso una corsa tra tori? È come comprare Cristiano Ronaldo e poi essere esclusi dalla Champions League perché l'Atalanta ha fatto più punti della Juventus. Non può più succedere. E ieri ne abbiamo visto un assaggio, quando in Borsa, invece del prevedibile tracollo per la sconfitta di Bergamo, le azioni della Juve hanno galoppato per tutta la giornata, chiudendo con un rialzo del 18%, pari a 180 milioni di maggiore capitalizzazione. Ma se 12 squadre di Inghilterra, Italia e Spagna sono ora arrivate a proporre un loro campionato privato, il percorso è partito da lontano.
La palla è stata buttata avanti già da lustri. Del progetto Superlega si parlava, in Italia, dagli anni Novanta. E quel che è successo nell'ultimo decennio era il segnale che il destino era segnato. Solo così si possono leggere i numeri che girano intorno al calcio italiano.
La Serie A è un'industria molto particolare, perché ci perdono tutti: sono in profondo rosso sia le società calcistiche, dove i costi sopravanzano regolarmente i ricavi; sia le tv che trasmettono le partite, non avendo ancora raggiunto abbastanza abbonati. Gli unici che guadagnano sono i dipendenti di questa industria: manager, calciatori e allenatori, insieme naturalmente ai loro procuratori. Pensateci: esiste al mondo un'altra industria - intesa come sistema articolato di capitale, lavoro, produzione, consumo, mercato - che chiude ogni anno i conti con costi maggiori dei ricavi, accumula debiti su debiti, e però continua ad alzare stipendi già milionari ai suoi dipendenti? Non la troverete. A meno di non andare a curiosare nelle sezioni fallimentari dei tribunali.
Due o tre numeri rendono l'idea: già prima del Covid, la Serie A fatturava (al netto dei 700 milioni di plusvalenze del calciomercato) circa 2,3 miliardi, a fronte di costi, ammortamenti e oneri finanziari per oltre 2,9 miliardi. Il gap si accumula da anni su un debito arrivato oltre i 4 miliardi. In questa situazione il costo dei tesserati cresce al ritmo del 6% l'anno: quale capitalista investirebbe in questa florida industria? Eppure qualcuno lo ha fatto: quelli che buttavano la palla avanti, per l'appunto.
Nell'ultima stagione pre-Covid, 2018-19, gli azionisti delle società professionistiche hanno immesso quasi 500 milioni di capitale fresco nel sistema, per oltre il 70% di provenienza straniera. Qualcosa dalla Cina (un canale che come noto si è ora chiuso), la maggior parte dagli Usa. Ecco allora che anche l'Italia, come già avvenuto in massa in Inghilterra, sta registrando l'americanizzazione del calcio. Non a caso nell'operazione Superlega è la banca d'affari Usa JpMorgan a fare da driver, pronta a metterci 10 miliardi.
La scommessa è che i grandi club del nostro calcio (i primi cinque contano quasi il 50% dei ricavi della Serie A) valgano molto di più dei numeri attuali, i quali a loro volta
sono circa la metà di quelli dei top team in Inglesi. Lì i dollari americani e in generale i grandi investitori hanno già fatto la loro scommessa. Ora, per farla anche qui, devono potersi assicurare di non poterla perdere.
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