Con la bocciatura da parte del Parlamento del Ddl Zan, sembrava scampato il pericolo di una legge che, partendo dal giusto contrasto a ogni forma di discriminazione, proponesse in realtà una visione ideologica della società imponendo il tema del gender e limitando la libertà di espressione dei cattolici ma purtroppo così non è. Negli ultimi mesi vari comuni hanno infatti aderito alla rete Re.a.dy (Rete Nazionale delle Pubbliche Amministrazioni Anti Discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere) che riunisce «rappresentati istituzionali di Pubbliche Amministrazioni, tra Regioni ed Enti Locali da tutta Italia» con l'obiettivo di offrire «alle pubbliche amministrazioni locali uno spazio di condivisione e interscambio di buone prassi finalizzate alla tutela dei Diritti Umani delle persone Lgbt e alla promozione di una cultura sociale del rispetto e della valorizzazione delle differenze». Sulla carta si tratta di un'iniziativa per contrastare forme di discriminazione ma in realtà è un ddl Zan mascherato e un'iniziativa nata per promuovere l'agenda Lgbt nel Paese. Non a caso la rete nasce nel 2006 «nell'ambito del Pride nazionale» quindi con una precisa connotazione ideologica e nella Carta d'Intenti tra le ipotesi di intervento si legge: «Azioni di informazione e sensibilizzazione pubblica rivolta a tutta la popolazione»; «azioni informative e formative rivolte al personale dipendente degli Enti partecipanti» e «azioni informative e formative rivolte al personale impegnato in campo educativo, scolastico, socio-assistenziale e sanitario». Lecito chiedersi se con la formula «tutta la popolazione» si intendono anche i bambini e il rischio che avvenga un vero e proprio indottrinamento ideologico dietro l'espressione «azioni informative e formative» è concreto. Le adesioni sono state molteplici (ne fanno parte Regioni e comuni come Torino, Milano, Roma...), dalla Puglia all'Emilia Romagna dove nel comune di Cesena si è sviluppata una vera e propria polemica dopo la scelta dell'amministrazione di centrosinistra di entrare a far parte della rete e la presa di posizione della diocesi che, con una nota del Consiglio pastorale e del Consiglio diocesano, ha condannato la decisione parlando di un «fatto grave verificatosi nella città, passato sotto silenzio, le cui conseguenze sono attuali e lo saranno anche in futuro».
Aderendo a Re.a.dy, un'amministrazione si lega de facto a un'iniziativa che sostiene attività come il Gay Pride promuovendo, più o meno direttamente, progetti nelle scuole sull'identità di genere. Si tratta, in sostanza, di un tentativo di imporre un ddl Zan in miniatura a livello locale attraverso i consigli comunali. Non a caso, nella sezione «buone prassi» del sito di Re.a.dy, si promuove l'«adesione alle date significative» come il 28 giugno in cui avviene il Pride.
In realtà, il fatto che la rete voglia sostenere quanto contenuto nel ddl Zan, non è un segreto poiché, tra le principali attività promosse negli ultimi mesi, c'è l'invito alle amministrazioni partner «ad un'azione congiunta della rete a sostegno dell'iter parlamentare del testo unificato della proposta di legge: Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi legati al sesso, al genere, all'orientamento sessuale e all'identità di genere, presentato dal deputato Zan».
È doveroso chiedersi, anche da un punto di vista istituzionale, nel
momento in cui il Parlamento boccia una legge, se sia lecito cercare di imporre a livello locale ai cittadini contenuti analoghi o se sia doveroso rispettare il volere della massima entità che esprime la volontà popolare.
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