Anche dopo essere stato indagato e destituito per la sua gestione illegale dei processi all'Eni, il pm milanese Fabio De Pasquale continua a indagare sul colosso di Stato. È un dettaglio quasi incredibile che affiora dalle 136 pagine depositate ieri di motivazione della condanna di De Pasquale (e del suo ex braccio destro Sergio Spadaro) a otto mesi di carcere per rifiuto di atti d'ufficio. Motivo della condanna: per una infinità di tempo, i due pm milanesi tennero nascoste alle difese degli imputati prove decisive emerse durante altre indagini, che dimostravano come il principale teste d'accusa, l'ex avvocato di Eni Vincenzo Armanna, fosse un bugiardo e un calunniatore.
De Pasquale, allora procuratore aggiunto, e Spadaro secondo la sentenza selezionarono «chirurgicamente» gli atti da depositare nel processo all'Eni. Per arrivare alla condanna di Claudio Descalzi, amministratore delegato del gruppo, e del suo predecessore Paolo Scaroni, i pm milanesi «hanno deliberatamente taciuto l'esistenza di risultanze investigative in palese ed oggettivo conflitto con i portati accusatori». Sono comportamenti che ancora prima della condanna di De Pasquale hanno portato il Csm a degradarlo a semplice pm. Eppure, si scopre nella sentenza, attualmente «è di nuovo lo stesso De Pasquale il pm incaricato di sostenere l'accusa in uno stralcio del processo Eni Nigeria», teorizzando il pagamento di una tangente, «circostanza già ritenuta infondata da due sentenze passate in giudicato».
La sentenza di condanna dei due pm (emessa dal tribunale di Brescia presieduto da Roberto Spanò) è una meticolosa controanalisi del modus operandi della Procura di Milano nel processo Eni, della caccia alla condanna a tutti i costi, compresa la violazione delle regole che impongono di cercare anche le prove dell'innocenza. Che questo accada raramente è un dato di fatto. Nel caso Eni, il caso è esploso per almeno tre motivi: l'importanza della posta in gioco, la potenza dell'apparato difensivo dell'azienda indagata, e soprattutto l'ingresso in scena con furore («paladino del giusto processo», lo definisce la sentenza) di un altro magistrato, Paolo Storari, che si scandalizza per l'insabbiamento delle prove a discolpa, e va con sprezzo del pericolo all'attacco dei vertici della Procura milanese. Risultato: quando Storari chiede a De Pasquale di arrestare il calunniatore Armanna, il procuratore aggiunto «"aveva cominciato ad agitarsi" e lo aveva «letteralmente cacciato fuori dalla stanza" ripetendogli sempre lo stesso refrain: di voler boicottare il suo processo"».
Nella loro linea difensiva, De Pasquale e Spadaro hanno sostenuto che le carte non depositate erano confuse e irrilevanti. É vero esattamente il contrario, secondo la sentenza di Brescia: se le prove fossero state rese note, «il processo "Scaroni Paolo + 14" avrebbe potuto concludersi positivamente per gli imputati già all'udienza preliminare».
Invece il processo si dovette celebrare, e impiegò tre anni per arrivare alla assoluzione di tutti gli imputati. Unica attenuante riconosciuta dai giudici a De Pasquale e Spadaro: alla colpevolezza dell'Eni ci credevano davvero.
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